sabato 12 dicembre 2015

Investitori subordinati

Mi è stato chiesto di esprimere un parere sulla vicenda che ha coinvolto i sottoscrittori delle obbligazioni subordinate emesse dalle 4 banche oggetto del decreto salvabanche, Banca dell'Etruria, Banca Marche, CariChieti e CariFerrara.

La vicenda è stata ampiamente trattata da tutte le testate giornalistiche, ora bene ora male, per cui non tornerò su argomenti già analizzati. Gli argomenti che sono implicati in questa orrifica storia sono molti per cui cercherò di procedere con ordine scusandomi in anticipo per la lunghezza dell'articolo.

Decreto d'urgenza e Bail in

Il consiglio dei ministri si è riunito con carattere d'urgenza domenica 22 novembre emanando un decreto che ha stabilito un doppio intervento che va nella direzione di salvare le quattro banche attraverso l'intervento del sistema creditizio e la creazione di una bad bank che dovrebbe gestire i (tanti) crediti deteriorati che avevano in pancia. Da un punto di vista politico-economico l'intenzione manifesta del governo è stata quella di salvaguardare posti di lavoro, istituti attivi sul territorio e tessuto economico. Contrariamente a quello che si pensa in generale, il salvataggio (3,6 miliardi) non incide sul bilancio pubblico perché è il sistema creditizio che si accolla la gran parte dell'intervento, con il solo paracadute (parziale) della Cassa Deposito e Prestiti i cui conti, come sappiamo, non incidono sul bilancio dello Stato. A dolersi dunque dovrebbero essere gli azionisti delle banche che impiegheranno i loro attivi nell'operazione e non i contribuenti preoccupati dalla fiscalità generale.

L'aspetto oscuro, sul quale qualcuno dovrebbe dare conto, è perché intervenire in questo modo a poco più di un mese dall'entrata in vigore della direttiva sul Bail In. Si possono fare molte speculazioni, compresa quella che riguarda gli interessi della famiglia Boschi in banca dell'Etruria, ma è un terreno scivoloso. Preferisco pensare che c'erano i tempi per intervenire alla vecchia maniera (Bail Out) e che ragioni di opportunità avrebbero fatto preferire una soluzione in linea con la normativa che sta per entrare in vigore.

Fra le due soluzioni quella preferibile è senza dubbio la seconda perché responsabilizza management e azionisti dell'Istituto di credito e perché può agevolare una selezione del mercato, il fly to quality, che spinga i depositanti ad utilizzare le banche che attuano una più prudente gestione del rischio. Ricordo che il deterioramento dei conti è nella fattispecie tutto imputabile ad una cattiva gestione degli impieghi con casi macroscopici che riguardano i crediti personali, di cassa e di firma, dei manager e di "quegli amici degli amici" a cui evidentemente non si applicano rigorosi criteri di selezione in base rating. In barba a tutte le direttive e normative emesse dagli organi di vigilanza.

Le obbligazioni subordinate


Ad essere gravemente colpiti sono piccoli risparmiatori trasformati in azionisti e detentori di subordinate dalle pratiche di vendita delle banche. Si è detto e sentito che le obbligazioni subordinate sono destinate ad investitori qualificati. Falso. Non esiste alcuna normativa che vieti ad un consulente o ad un altro intermediario finanziario l'indicazione o la vendita di obbligazioni junior, come invece previsto per quote di fondi hedge. Esiste, quello si, una indicazione emanata da Banca d'Italia, di concerto con la Consob, che raccomanda un rafforzamento dell'analisi dell'adeguatezza dello strumento finanziario rispetto al profilo di rischio del cliente. Oscar Giannino, unico, fa giustamente notare che gli effetti dell'entrata in vigore del Bail In erano stati previsti da BankIt in ordine al collocamento di subordinate; l'istituto di palazzo Koch faceva riferimento e ai rendimenti di questa tipologia di obbligazioni che dovevano incorporare un premio per il (maggior) rischio, e l'adeguamento dei questionari Mifid.


Ma perché gli Istituti di Credito collocano questo tipo di obbligazioni? Perché per effetto dei meccanismi contabili fare raccolta attraverso le subordinate equivale a fare raccolta di equity e quindi a rinforzare il capitale soggetto a vigilanza. In altre parole vendendo debito non privilegiato le banche scaricano sulla clientela il costo della ricapitalizzazione utile a superare gli stress test previsti dall'Eba. Superare gli stress test significa poter continuare ad erogare credito, quindi chi lancia anatemi (mi riferisco ai politici) contro le banche in generale dovrebbe quantomeno usare un po' di prudenza quando tratta con leggerezza argomenti così complessi. La stessa cosa, chi legge ricorderà, è avvenuta in occasione del famoso prestito all'1% concesso dalla Banca Centrale Europea al sistema bancario. Si lamentava demagogicamente che quei soldi non venivano impiegati nell'economia reale sotto forma di crediti alla piccola e media impresa; ma le banche non possono prestare denaro se non hanno capitale e riserve sufficienti e, soprattutto, non possono prestarlo senza che vengano rispettati parametri di sana e corretta valutazione del rischio. Insomma, non si possono pretendere prestiti facili e poi lamentare che le banche non abbiano conti sani. Sono due elementi complementari che fanno in modo che senza l'uno (i conti in ordine) non ci sia il resto (il finanziamento). In tutte le crisi bancarie la causa scatenante è sempre stata la concessione troppo semplice di finanziamenti; si pensi ad esempio alla crisi dei mutui subprime del 2007. 

L'adeguatezza Mifid


Quello Mifid è un complesso di norme e raccomandazioni entrato in vigore nel 2007 e successivamente implementato e corretto. La vigilanza Mifid spetta alla Consob che negli anni ha emanato chiarimenti che hanno ulteriormente ristretto i margini operativi per gli intermediari finanziari.

Come spesso accade l'eccesso normativo produce orrori. Nella fattispecie l'orrore è rappresentato da questionari lunghi (oltre 100 pagine), quesiti generici che coprono tutto lo scibile in campo finanziario e quesiti specifici che devono essere valutati e controfirmati anche da chi non è interessato ad investire su quello specifico strumento. L'effetto pratico di moduli troppo complessi o estesi è spesso quello di precompilare i questionari in funzione dello strumento che si sta proponendo o acquistando, così come l'effetto di un limite di velocità troppo basso rispetto alla caratteristica della strada induce a non rispettare la velocità massima prevista. Quando mi occupavo di investimenti ho visto pensionati con bassa scolarizzazione che da Mifid risultavano detentori di warrant e options solo per poter avere un profilo dinamico e quindi acquistare quote di fondi azionari. Una evidente contraddizione. La verifica della corretta profilatura del cliente spetta in prima battuta agli uffici stessi dell'intermediario che devono far corrispondere l'esito della query al prodotto offerto, consigliato o acquistato. Le verifiche dell'autorità di vigilanza arrivano ex post.

La vigilanza

La vigilanza sull'attività degli istituti di credito spetta alla Banca d'Italia per quanto riguarda i parametri di bilancio e i margini di garanzia, e alla Consob per quanto riguarda i prodotti finanziari collocati. Con questa vicenda si è aperta una profonda frattura fra Banca d'Italia (e Abi) e autorità europee. La feroce difesa dell'operato di via Nazionale mi appare francamente come una exusatio non petita perché se pure può essere vero che in sede europea BankIt aveva chiesto uno spostamento in avanti dell'entrata in vigore del Bail In, è altresì vero che al cambio di rotta si è arrivati gradualmente e gli effetti del Bail In non si applicano a questo caso. Altrettanto pelose appaiono le ragioni di chi ricorda che Germania, Spagna e Irlanda hanno utilizzato denari pubblici per salvare banche in default. Erano altri tempi, con altre normative e con un rischio che diventava sistemico e non legato a 4 istituti di dimensioni tutto sommato locali.
C'è da chiedersi piuttosto come mai attività ispettive cominciate nel 2012, rilevanti "ostacoli all'attività di vigilanza", non hanno determinato rigide attività di recupero dei crediti deteriorati e abbiano consentito che si continuassero a vendere azioni e obbligazioni di istituti dai conti traballanti. Si poteva e forse doveva evitare che nuove emissioni entrassero nei portafogli dei clienti. 
Le raccomandazioni Mifid in ordine ad adeguatezza e appropriatezza, conoscenza dei meccanismi finanziari e degli strumenti finanziari non bastano ad evitare tragedie come quella di Luigino D'angelo. Nello stesso tempo appare come una foglia di fico sostenere che il rendimento delle subordinate doveva rappresentare un campanello d'allarme per i sottoscrittori. Una persona con scarsa competenza finanziaria (ma anche con competenza media) non può valutare una cedola del 3,5% come premio per il rischio emittente con conseguente grave possibilità di non ottenere neanche il rimborso del capitale a scadenza del titolo; anche se i BTP pagano rendimenti di 2 o 3 volte inferiori.

Conflitto di interessi e finanza comportamentale

La normativa Mifid nasce con lo scopo principale di tutelare l'investitore. In ordine al conflitto d'interessi in cui si possono trovare gli intermediari, le prescrizioni, altrove troppo rigide, si limitano ad un dovere di informare il cliente che la società/banca si può trovare in posizione di conflitto d'interessi quando colloca una determinata tipologia di titoli. E' il caso, macroscopicamente evidente, della banca che vende azioni e obbligazioni proprie anche con lo scopo di riequilibrare i margini di solvibilità. Sul conflitto d'interesse il legislatore dovrebbe avere il coraggio di prendere provvedimenti più rigidi, ad esempio vietando la vendita da parte degli intermediari di strumenti finanziari di cui è anche emittente. Verrebbe meno, è vero, una forma di finanziamento, ma verrebbe meno la tentazione di vendere a tutti i costi prodotti che massimizzano il profitto a danno della libertà di scelta del cliente.
Nessuno lo ha detto o scritto, mi pare, ma un elemento fondamentale di questa brutta vicenda è la particolar situazione in cui si trova un risparmiatore di fronte ad una operazione di investimento. Anche il più prudente dei clienti retail si aspetta dall'impiego dei propri soldi un guadagno, il cosiddetto alpha. Solo gli istituzionali hanno la capacità di giudicare positiva un'operazione a somma zero o negativa (si veda il caso ad esempio delle ultime emissioni di BOT). Il cliente privato si aspetta sempre una remunerazione che, detratti i costi (tasse comprese). generi alpha. L'obbligazione è da sempre percepita come investimento "sicuro". Nel prospetto informativo c'è il valore delle cedole (garantite) e il valore del rimborso (100% della somma investita). I rischi, sistemico, specifico, di cambio ecc., sono trattati in altro capitolo del prospetto e riferiti alla totalità degli strumenti finanziari e delle operazioni di investimento. Fra la definizione (generica) di rischio e la convinzione (storica) di sicurezza dell'obbligazione a prevalere nella maggior parte dei casi è quest'ultima. Nonostante le esperienze Tango Bond, Parmalat, Cirio, Lehman Brothers.
Se poi ad offrire l'obbligazione bancaria è lo stesso gestore al quale si deve chiedere un fido, un anticipo fatture o semplicemente l'esecuzione di un versamento, la percezione del rischio connesso all'operazione di investimento passa facilmente in secondo piano rispetto alla consuetudine ad utilizzare quella banca. 
Nella mia quotidiana esperienza di consulenza finanziaria mi son trovato di fronte sempre funzionari di banca preparati e coscienziosi. I casi di vendita di prodotti non adeguati sono rarissimi. Il pericolo che si faccia di ogni erba un fascio è grande e ingiusto. Per questo, anche per tutelare i bravi operatori che ci sono, sarebbe opportuno cambiare la normativa sul conflitto d'interessi.

Cosa può succedere ora?

E' facilmente ipotizzabile che se non tutti almeno la grande maggioranza dei questionari di adeguatezza siano stati firmati dagli obbligazionisti. In questo caso i clienti delle banche hanno poco a cui appigliarsi per il ristoro delle somme perse. L'onere della prova di aver adempiuto agli obblighi di legge spetta alle banche e di fronte ad una firma su un questionario compilato in ogni sua parte quest'onere è soddisfatto. Il governo sembra orientato a costituire un arbitrato che dovrà per forza di cose valutare caso per caso con tempi che non si prospettano brevi. L'ipotesi di una class action contro le banche, percorsa da associazioni di consumatori, non mi sembra abbia molte possibilità di arrivare a successo. La seconda opzione, quella della costituzione di una provvista dedicata al risarcimento attraverso il fondo interbancario di tutela dei depositi, dovrebbe essere bocciata in sede europea. Le parole del ministro Padoan che ha parlato di emergenza umanitaria sono patetiche e inopportune e sono già state bollate dal commissario europeo ai servizi finanziari Jonathan Hill. Una cosa che si potrebbe fare è convertire quei titoli in opzioni sulle azioni delle nuove banche o in diritti sulle operazioni di recupero dei crediti deteriorati confluiti nella bad bank. Si eviterebbe di incorrere nelle sanzioni per aiuti di Stato e si darebbe più di un pezzo di carta agli obbligazionisti.








domenica 22 novembre 2015

Oriana, il Daesh e la guerra al terrore islamico

“Diventeremo l’Eurabia, in nemico è in casa nostra e non vuole dialogare”, queste le parole forse più forti pronunciate da Oriana Fallaci all’indomani degli attentati dell’11 settembre. Il termine Eurabia fu coniato dalla scrittrice ebraica Bat Ye’or che ipotizzava un’alleanza euro-araba contro Israele. Cardini di questo pensiero erano
a) l’atteggiamento più o meno palese filo arabo di molti stati europei nella questione palestinese
b) la costruzione di una politica degli esteri europea (essenzialmente condotta dalla Francia) in contrapposizione con quella degli Stati Uniti, storicamente schierati al fianco di Israele
c) le curve demografiche specularmente opposte di europei e musulmani (è interessante che questo elemento venga ripreso da alcuni Imam radicali, i quali ricordano che un musulmano può avere fino a 4 mogli e il tasso di natalità europeo è poco sopra 1).

Dunque nell’accezione originale il pericolo di una islamizzazione dell’Europa era decisamente riferito alla questione palestinese. La versione fornita dalla Fallaci invece, pur riprendendo alcuni di quei temi, (debolezza europea e anche americana di fronte alla minaccia islamica), ipotizzava una colonizzazione progressiva dell’occidente attraverso flussi migratori di popolazioni arabe e africane verso l’Europa.

L’offensiva dell’Isis sul territorio europeo con gli attentati di Parigi e le minacce alle altre capitali europee rappresenta l’attuazione di questo piano di invasione?

La propaganda sciacallesca di Salvini e di porzioni di centrodestra italiano e non vorrebbero farlo credere, ma un’analisi più attenta porta ad altre conclusioni.

Il califfato di Al Baghdadi si è subito differenziato nettamente rispetto ad Al Qaeda, di cui è una sorta di versione 2.0. Il limite dell’organizzazione di Bin Laden e Zawahiri era la non territorialità. Al Qaeda era un’organizzazione terroristica diffusa, organizzata in bande locali senza un territorio di riferimento. Le cellule qaediste agivano contro un nemico comune, l’Occidente, ovunque ne avessero la possibilità ma le loro azioni non avevano uno scopo più complesso. L’Isis invece si è posto subito l’obiettivo di organizzarsi in forma di stato, con un territorio definito, una propria organizzazione burocratica, con proprie attività commerciali e persino con la riscossione di tasse. La principale attività non è quella di seminare il terrore a Parigi piuttosto che a Roma, bensì quella di conquistare territori ricchi di materie prime e di petrolio e sfruttarne le potenzialità economiche.  Gli introiti del califfato sono molteplici, esattamente come per ogni organizzazione statale o parastatale, e vanno dal commercio (in nero) di petrolio al merchandising, da quello di opere d’arte ai dazi. In più ci sono tutte le attività tipiche di un’organizzazione criminale come il saccheggio delle banche e i riscatti per rapimenti. Insomma è molto più di un’organizzazione di fanatici. E’stato calcolato che il patrimonio accumulato ammonta a 2 miliardi di dollari e gli introiti da vendita di petrolio a circa 3 milioni di dollari al giorno.

Altro discorso meritano i finanziamenti ricevuti dal califfato. Il Washington Post ha condotto un’inchiesta  un'inchiesta dalla quale emerge che questi finanziamenti arrivano prevalentemente da Arabia, Kuwait e Qatar attraverso donazioni private.

Il Califfato occupa stabilmente 3 territori, le province di Raqqa in Siria, di Mosul in Iraq e di Sirte in Libia. Elemento comune è l’instabilità politica di quei Paesi  nei quali è facile con armi e determinazione conquistare spazi. 

Sfruttando dunque le tensioni geopolitiche, e gli interventi maldestri dell’Occidente, organizzazioni criminali mediamente organizzate possono prendere il controllo di aree intere del medio oriente; una lezione di cui tener conto e probabilmente è uno dei motivi per cui le truppe americane durante la prima guerra del golfo si fermarono a pochi chilometri da Bagdad, lasciando al suo posto Saddam.

Le principali e più cruente azioni terroristiche non sono state rivolte verso l’Europa ma contro le enclave curde e yazide e  verso gli sciiti, contro i quali i musulmani di confessione sunnita conducono una battaglia secolare. I 129 morti di Parigi fanno inorridire ma l’elenco delle azioni riconducibili all’Is è ben lungo.
Gli uomini del califfato hanno colpito in Arabia Saudita sia nella zona di Ihssa a maggioranza sciita che a Saihat (37 morti), nel Kuwait (27 morti), Tunisia (39 morti a cui si aggiungono le 22 vittime del museo del Bardo), Yemen (25 morti), Turchia (158 morti), Libano (43 morti), Egitto (4 morti) , Afganistan (35 morti). Poi ci sono le centinaia di vittime e deportati di Kobane, Mosul (670 sciiti fucilati), Beshir (700 morti), Kocho (80 vittime). La triste contabilità delle atrocità commesse dall’Isis è difficilissima ma indica abbastanza chiaramente che la maggior parte delle azioni sono state condotte fuori dall’Europa e non contro cittadini occidentali.

Questo significa che il pericolo è sovrastimato? Certamente no. Può significare però che gli attentati contro gli occidentali siano più riconducibili ad una forma di propaganda che non ad una reale intenzione di conquistare il vecchio continente e abbattere il “diavolo” occidentale. Da quando è stato costituito il califfato, sono oltre 3000 i foreign fighters di provenienza europea che sono andati ad affiancarsi ai 30.000 (erano 15.000 nel 2014 secondo Foreign Policy) miliziani dell’Isis impegnati nelle campagne militari in Siria e Iraq. Si tratta per lo più di giovani di origine araba e magrebina, europei di seconda e terza generazione, esattamente come gli attentatori di Parigi. Tutto sommato numericamente poco significativa invece la conversione di occidentali. In altre parole la retorica dell’attacco allo stile di vita decadente e peccaminoso dei miscredenti cristiani appare più come una ben congegnata operazione di marketing volta al reclutamento di giovani arrabbiati, che non come una via per la conquista del vecchio continente. In fondo, ricordiamolo, terzomondisti e critici della cosiddetta società in mano alle multinazionali ce ne sono anche fra noi europei; talvolta anche in parlamento. La stessa ricostituzione del califfato e l’autoproclamazione di unico califfo di tutti i musulmani sta ad indicare abbastanza chiaramente che l’obiettivo di Al Baghdadi è il controllo del mondo islamico e non di quello cristiano.

Pur contando su una organizzazione militare rigida e ben strutturata, pur considerando che all’interno delle aree fra Iraq e Siria sotto il controllo dell’Is vivono 6 milioni di abitanti, pur ammettendo che è di gran lunga il più ricco gruppo terroristico del mondo, è ben difficile che una entità tutto sommato piccola possa rappresentare una reale minaccia per un’organizzazione sovranzionale di 300 milioni di abitanti e ancor di più per gli USA o la Russia. Se non intervenissero altri e più complessi ragionamenti sarebbe abbastanza facile spazzare via lo Stato islamico dell’Iraq e della Siria. Come accennavamo sopra gli interventi militari degli ultimi 30 anni hanno dimostrato che abbattere una dittatura in quella regione porta più incognite che certezze. Significa i) dare il via ad una guerra per bande per il controllo di porzioni di territorio ii) dare impulso al sentimento antiamericano e antioccidentale, considerati  come invasori, sfruttatori e miscredenti iii) favorire il finanziamento occulto da parte di clan (le famiglie wahabite del Qatar ad esempio) a questa o quella  organizzazione di ribelli in funzione di combattere nemici storici. Se si vuole dunque annientare il Daesh è opportuno fare in modo che l’accerchiamento sia completo e della coalizione facciano parte anche quegli stati il cui atteggiamento è quantomeno equivoco. Un ruolo importante ce l’ha l’Iran, bersaglio di Al Baghdadi in quanto Paese sciita, ma un ruolo altrettanto importante devono averlo i Paesi arabi e l’Egitto. Gli attentati del 13 novembre e quello quasi contemporaneo all’aereo di linea russo hanno avvicinato Hollande e Putin, ammorbidendo anche l’intransigenza di Obama rispetto alle mira russe nell’area. La Turchia, interessata da fenomenii migratori molto più imponenti di quelli affrontati dall’Europa, ha aperto ad un possibile suo intervento più coordinato e sistematico. Resta da vedere che atteggiamento assumeranno i sauditi.

Vi sono altre 2 considerazioni da fare.
L’imponente flusso migratorio in atto da mesi dalle coste dell’Africa verso Italia e Grecia e via terra dalla Siria attraverso la Turchia e l’Europa orientale, poco ha a che fare con la minaccia terroristica. E’ ingenuo, oltre che fuorviante, pensare che un siriano che voglia farsi esplodere in una discoteca di Parigi rischi la vita su un scalcagnato barcone per raggiungere le coste europee. Le rotte dei terroristi seguono altri percorsi oppure, come abbiamo visto, perseguono la strada dell’indottrinamento di chi sul territorio europeo già ci vive. Allo scopo Al Qaeda prima e l’Isis ora hanno utilizzato tanto le moschee quanto internet.
Per chi è indottrinato in base alle più estremistiche interpretazioni del Corano, la morte non è una minaccia ma un premio. Combattere e morire in una guerra contro chi è considerato infedele è una ricompensa. Questo comporta che annunciare il pugno duro senza che ad esso corrisponda un’azione determinata non ottiene nessun effetto. Fanno sorridere quelli che predicano il dialogo con queste organizzazioni e, più o meno intenzionalmente, ne giustificano gli atti come risposta agli abusi degli occidentali. Non ci può essere dialogo con chi non ha nessuna intenzione di dialogare. In questo, e solo in questo, la Fallaci aveva ragione. 

lunedì 26 ottobre 2015

La Legge di stabilità secondo Renzi

Perché le tasse che diminuiscono invece aumentano

Mentre Renzi va in giro per il mondo per il suo road show in cui magnifica la ripresa economica italiana - partendo dal Cile che viaggia su saggi di crescita del Pil compresi fra il 2,8 e il 3,6 nel 2016 - comincia a dipanarsi la nebbia sulla legge di stabilità presentata alla stampa qualche giorno fa.
Capitolo centrale della “finanziaria” 2016 è il previsto funerale delle tasse sulla casa. L’argomento è già stato ampiamente trattato su queste pagine  http://noisefromamerika.org/articolo/mio-nonno-fava-mattoni e http://noisefromamerika.org/articolo/lo-strano-caso-abolizione-imu , per cui non ci tornerò.
Tutto l’impianto della manovra si basa su 3 elementi, come vedremo retorici, a conferma di quanto qui spesso si sostiene, ossia che Matteo Renzi sta facendo politica per tenersi il potere, non per risanare il paese.
i) Riduzione delle tasse
ii) Flessibilità del parametro del deficit
iii) Efficacia delle riforme
Riduzione delle tasse
L’aggiornamento al DEF, unico documento completo del governo oggi consultabile, ci dice che la pressione fiscale passerà dal 43,7% del 2015 al 44,2% del 2016 (esclusa la misura degli 80 euro che come sappiamo è imputata per ragioni di contabilità alle spese). Dunque se Renzi e Padoan parlano di riduzione delle tasse come scelta ineludibile che non è né di sinistra né di destra, deve esserci qualche elemento che viene sottratto artificiosamente alla discussione dato che è lo stesso governo a smentire sé stesso. Conoscendo un po’ di materia fiscale, soprattutto il modo in cui si dipana la matassa del calcolo delle imposte per effetto del combinato dei tanti, troppi, provvedimenti in materia, si può ottenere la risposta. Ad esempio, il ricalcolo del diritto alle agevolazioni fiscali in funzione dell’attuazione del Dpcm 159/2013 (Isee) produce per molti cittadini e famiglie un aumento del reddito equivalente e quindi minori detrazioni, quindi maggior pressione fiscale e minor reddito disponibile anche con l’abolizione dell’IMU. Ragion per cui fra il Renzi 1, quello che mostra le slide ai giornalisti, e il Renzi 2, quello che firma il DEF, è più probabile che quello sincero non sia il primo. In buona sostanza l’ineludibile ed auspicabile riduzione della pressione fiscale non ci sarà né nel 2016 né nel 2017. A legislazione vigente ci sarà al limite nel 2019, sempre che gli enti locali non possano compensare i minori introiti con un aumento delle addizionali di loro competenza.
Non meglio va sul fronte delle entrate tributarie complessive espresse in valore assoluto (non rapportato al PIL), laddove lo Stato conta di incassare 817 miliardi nel 2016, 843 nel 2017, 866 nel 2018 e 884 nel 2019; con una progressione che sembra inarrestabile.
C’è poi da ricordare che le clausole di salvaguardia, di cui parlerò dopo, non sono affatto annullate così come promesso a più riprese, ma solo posticipate.
Flessibilità del deficit
Ad una scelta di “destra”, o berluconiana, Renzi contrappone una scelta di “sinistra”, sfruttando gli spazi di manovra concessi dall’Unione Europea in materia di deficit. Il percorso verso il pareggio di bilancio si concluderebbe nel 2017. La deviazione, già prevista nella misura dello 0,5%, crescerà di un altro 0,3 a cui si aggiungerebbe un ulteriore 0,2 per effetto delle misure straordinarie destinate alla gestione dei flussi migratori. Si tratta come si vede di una manovra economica in deficit, né più né meno di tante altre che abbiamo visto negli anni passati. L’effetto di queste manovre, ce lo dice l’osservazione storica, è o l’aumento del debito o l’aumento delle imposte future; a meno che non ci sia una equivalente riduzione delle spese correnti. Ma anche qui Renzi fa l’uomo di sinistra (Fassina sarà contento) e di spending review si è persa oramai qualsiasi traccia. Certo ci sono i tagli lineari ai ministeri (1,5 miliardi) e quelli da definire alla sanità, ma sul capitolo pensioni che da solo concorre alla spesa dello Stato per il 17% già si parla di flessibilità in uscita e quindi di stress sui conti INPS.
Sull’equilibrio dei conti pubblici pende la scure dell’applicazione delle clausole di salvaguardia introdotte con la legge di stabilità 2015. Un aumento di 2 punti delle aliquote IVA e delle accise sugli oli minerali. Il governo sembra rendersi conto che gli aumenti previsti (da cui dipendeva l’approvazione europea della legge di stabilità dello scorso anno) possono compromettere la già timida ripresa, ma rimanda ad un futuro dibattito la loro sterilizzazione. E’ un modo di agire pericoloso perché il quadro economico mondiale mostra segni di rallentamento. Se, come sembra, la situazione internazionale dovesse peggiorare, le previsioni sul PIL dovrebbero essere riviste al ribasso e l’impianto della manovra impostata su un maggiore indebitamento salterebbe. A quel punto sarebbe ben difficile evitare gli aumenti previsti.
Efficacia delle riforme
Che il governo Renzi sia preda di un furore riformista non credo si possa negare. Che questa frenesia produca benefici effetti sull’economia è di là da dimostrare.
Posto che le riforme elettorali e costituzionali poco impattano sull’economia; posto che gli effetti degli 80 euro sui consumi sono stati men che trascurabili; posto poi che jobs act e decontribuzione hanno prodotto risultati sul fronte dell’occupazione ancora troppo altalenanti per essere considerati definitivi, qualcosa è lecito attendersi dai decreti delegati in materia di rapporti fra PA e contribuenti, abuso di diritto ed elusione e riforma delle società partecipate. Su queste materie tuttavia insistono ancora dubbi interpretativi e deleghe ancora non arrivate.
Di quelle previste dal cronoprogramma elaborato dal governo ad avere impatti sul prodotto interno lordo e in generale sull’economia ci sono solo la cessione di aziende pubbliche (Poste, Enav, Ferrovie dello Stato), riforma delle scuola e legge delega sulla riforma della P.A. Le ultime due dovrebbero produrre risultati fin da subito che però allo stato non si vedono.  
Conclusioni
La partita della ripresa passa necessariamente per una ridefinizione del rapporto fra pressione fiscale e razionalizzazione della spesa pubblica. Di solito il percorso parlamentare delle leggi di stabilità produce stravolgimenti che premiano la spesa e mortificano i buoni propositi sulla pressione fiscale. E’ ipotizzabile che sull’IMU sulla prima casa il testo proposto da Renzi trovi un’ampia convergenza, mentre sul resto dei provvedimenti l’iter potrebbe essere diverso. Qualunque sia il risultato finale, il governo sembra davvero aver intrapreso un cammino pieno di incognite, anche al netto degli ottimistici proclami e del clima di fiducia che intende ispirare.

Pubblicato su noisefromamrika.org

martedì 28 luglio 2015

Milano Unica

Sono stato ieri sera (27.07 per chi legge) all'Ambrosianeum ad ascoltare la presentazione della campagna per la poltrona a sindaco di Palazzo Marino di Corrado Passera.



Quando parlo di Italia Unica e del suo leader non posso evitare di partire da alcune premesse:


  1. CP mi è umanamente simpatico. L'ho conosciuto di persona e abbiamo avito modo di parlare di politica, dell'Italia, della sua esperienza al ministero dello sviluppo economico, di possibilità di nascita di una nuova offerta politica. E' sempre stato disponibile all'ascolto e al confronto, almeno fino a quando le critiche non sono diventate più pungenti.
  2. In Italia Unica militano tanti amici con cui si è condiviso, con alterne vicende, un progetto.
  3. Se l'offerta politica è rappresentata dalle televendite del Renzi Job Act Show, o dalle felpe si Salvini, o dai vaffa dalla Costa Smeralda di Grillo, l'uomo Passera appare un gigante come Gulliver fra i lillipuziani.
  4. Come manager ha fatto talvolta benissimo, talvolta bene, tal'altra così e così; comunque molto meglio di tanti altri di cui si ricordano le gesta più gli emolumenti inversamente proporzionali ai passivi in bilancio delle società che guidavano che per altro.
Fatto questo incipit avevo già avuto modo di commentare quello che mi appariva come un programma debole e all'insegna della continuità. Da allora, era febbraio, CP ha invertito la rotta, puntando alla poltrona di una città, sia pur una grande città, piuttosto che a quella di Palazzo Chigi. Credo che sia un passaggio significativo del ridimensionamento del suo progetto di governo e di nuovo punto di riferimento del centrodestra. Cosa abbia fatto cambiare prospettiva non lo so, anche se nell'articolo citato Boldrin ed io esprimevamo lo scetticismo sulla possibilità che un movimento nuovo così democristianamente ecumenico potesse far breccia fra gli elettori.

Tant'è, Passera riparte dal comune più importante d'Italia arrendendosi allo strapotere delle promesse renziane. Può darsi che in prospettiva non sia neanche una mossa sbagliata.

E' presto per rivelare i programmi e, come giustamente sottolineato dal responsabile economico Riccardo Puglisi, si darebbe soltanto agli altri il vantaggio di copiarli. Tuttavia qualcosa sulla visione di IU mi aspettavo; e invece non è arrivato nulla.

Nell'ora e mezza passata in un ambiente più umido della foresta amazzonica si è parlato di (nell'ordine):
  1. ascolto dei cittadini
  2. incontro nei bar con i cittadini
  3. apertura delle porte formate dai cittadini
  4. burocrazia amica dei cittadini
  5. redistribuzione dei servizi ai cittadini
  6. maggiore spazio al terzo settore (deve essere un mantra quello del terzo settore ma bisognerebbe spiegare ai cittadini di Quarto Oggiaro esasperati per il degrado e per lo spaccio cos'è).
Giustamente alla ennesima volta in cui la parola "cittadini" (nobilissima per carità) è stata pronunciata il solito Puglisi, che gli umori della folla un po' li sente dato che frequenta assiduamente gli studi di La7, si è alzato e ha detto "chiamiamoli "pagatori di tasse"!
A quel punto mi aspettavo a) l'ovazione degli 81 cittadini presenti b) l'urlo di approvazione del candidato sindaco pronto a lanciare il guanto di sfida a una delle amministrazioni comunali più voraci dell'orbe terracqueo; invece...niente. Il low profile, il parlare con tono pastorale e rilassato, il vogliamoci bene che tutto sommato non stiamo così male sembra essere un cliché che non deve, o non può, essere abbandonato.

Come per il programma per l'Italia anche quello per Milano sembra essere un mantenere lo status quo con qualche piccolo aggiustamento, qualche piccolo efficientamento, qualche miliarduccio da investire (l'altra volta i miliarducci erano 400) per rimettere in moto il territorio. Insomma niente rispetto a quello che penso serva - meno burocrazia, più libertà di impresa, più competitività, maggiore apertura ai mercati per un tessuto produttivo, quello milanese e quello lombardo, che avrebbe sicuramente la capacità di giovarsene, meno TASSE - e niente rispetto alle aspettative di una popolazione incazzata pronta a gettarsi fra le braccia del più rozzo e xenofobo degli urlatori da piazza.

Magari più avanti Passera cambierà toni; magari più avanti svelerà cosa vuole che diventi Milano sotto la sua guida; magari sarebbe anche un buon sindaco, ché le capacità non gli mancano e peggio di così è davvero difficile fare. 

Intanto da quello che ho sentito la voglia di votare non mi è venuta; poiché l'election day sarà di domenica è probabile che me ne vada al lago. Allo stesso modo è difficile che chi a votare ci vuole andare, quel 50% di elettori da tutti inseguiti e da nessuno raggiunti si faccia coinvolgere da uno che tutto sommato con la politica, quella con la p minuscola, ha sempre fatto affari.

Sarò lieto se i fatti mi smentiranno.

martedì 16 giugno 2015

Un pensiero sociale (nona parte) - La generazione X

Prendo spunto da un bel articolo di Riccardo Puglisi su Linkesta (http://www.linkiesta.it/generazione-anni-70-senza-potere) per dire anch'io la mia sulla Generazione X, di cui, poco soddisfatto, faccio parte.

Devo tuttavia fare un preambolo prima di incominciare, a beneficio dei pochi che leggeranno questa nota. La cosiddetta Generazione X comprende nati tra gli anni 60 e gli anni 80. Una bella fetta della popolazione oggi in età adulta, possibilmente sposata e con prole, da anni inserita nel mondo del lavoro reale. Bene! Stiamo parlando di questa gente qui, cresciuta come dice Puglisi a pane e anime, in una Italia già abbastanza benestante, ma non del tutto. Tuttavia, come spesso accade nelle disamine di professori, cattedratici e sociologi, si manca il punto e si finisce per lanciare la freccetta poco più a destra o sinistra, rispetto all’occhio di bue. Il centro, che non piace a nessuno sia chiaro, proverò a mostrarvelo io; senza pomposi grafici e formule matematiche, senza tabelle demografiche e frasi complicate. Sarò anzi un po’ duro e forse per qualcuno anche scurrile. Per questo chiedo in anticipo venia. Infine sia chiaro: niente contro il Dottor Puglisi, che per quanto possa dire, mi sembra proprio un bravo ragazzo…

Ok! Giù dalla torre d’avorio!

lunedì 25 maggio 2015

Pensioni, il solito pastrocchio all'italiana

“Le nuove regole introdotte dalla riforma adottata con la L. 214/2011 hanno modificato in modo significativo il sistema pensionistico migliorandone la sostenibilità nel medio-lungo periodo e garantendo una maggiore equità tra le generazioni”. 
Così recita una nota del ministero dell’economia nel DEF 2015. La sostenibilità del sistema nel medio-lungo periodo non può essere certo messa a rischio dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 70/2015, mentre quella a breve poteva, o potrebbe, essere seriamente messa in discussione, in special modo con riguardo all’equilibrio delle spese correnti e del parametro del deficit. Pericolo scongiurato, a detta di Renzi, attraverso la determinazione del Consiglio dei Ministri del 17 maggio con cui il governo ha stabilito che ad avere il beneficio della perequazione all’inflazione saranno 3,7 milioni di pensionati rispetto ai circa 5 milioni degli aventi diritto con una spesa pari a 2,1 miliardi contro i 18 preventivati.
Dunque l’angoscioso dilemma sull’uso del – presunto - tesoretto è stato risolto. Pazienza se il suddetto tesoretto doveva essere di 1,6 mld e non di 2,1. 
Lo Stato dunque restituisce l’11,1% di quanto dovrebbe in forza di una sentenza della suprema corte. Il resto mancia, o meglio si vedrà nei prossimi anni. Le costituende associazioni di pensionati, spalleggiati dai soliti sciacalli politici un tanto al kilo, che magari nel 2011 votarono il decreto Monti (PD e PdL-Forza Italia in testa), già urlano il loro grido di guerra e minacciano class action. 
Vediamo di fare un po’ di ordine in questo inqualificabile pastrocchio molto italiano e proviamo a fare qualche considerazione sul perché una materia così sensibile non riesca a trovare nel belpaese una meritata e stabile quiescenza. 
La spesa per trattamenti pensionistici è in Italia oggettivamente molto alta. Sempre nel DEF si può leggere la seguente tabella che riporta l’incidenza degli assegni pensionistici sul totale.


 Come si vede, alla faccia di tutte le riforme che avrebbero stabilizzato il sistema, fino al 2045 la spesa per pensioni si terrà ben al di sopra del 15%, il doppio della media OCSE. Come si è arrivati a questo livello?  
ONTOLOGIA DI UN PASTROCCHIO
Il guazzabuglio creato dalla sentenza della Consulta ha origini lontane ed è insito nel sistema pensionistico stesso.
Un sistema a ripartizione, indipendentemente dall’essere caratterizzato dal calcolo retributivo o contributivo, è sottoposto a stress finanziario se non supportato da adeguate dinamiche demografiche ed economiche.
Insomma, va bene finché cresce il numero di occupati in rapporto al numero dei pensionati e finché cresce la produttività degli occupati stessi, ossia il PIL aggregato. Altrimenti non va più bene e diventa una palla al piede non solo e non tanto per i conti dello stato ma per il sistema economico stesso. Perché, siccome le pensioni vanno pagate, la tassazione sul reddito (da lavoro) deve crescere o ben via contributi sociali o ben via imposte generali. E questo ammazza il lavoro.
In Italia, da quasi due decenni, c'è poca crescita dell'occupazione e quasi nulla crescita della produttività. Quindi il PIL non cresce e da 8 anni oramai discende. Quindi il reddito da "ripartire" diminuisce e, se la fetta "ripartita" via pensioni non decresce assieme al PIL ma cresce, decresce ancor di più quel che rimane per gli altri. Quelli che il PIL lo producono, o dovrebbero.
Su questo stato di fatto per almeno tre decenni la politica ha chiuso occhi, naso ed orecchie  arrivando a mantenere in vita furti come le Baby Pensioni (Governo Rumor, 1973) che ci costano ancora 9 miliardi l’anno, o sistemi di calcolo particolarmente generosi per tutti (fino a più del 100% del reddito per alcuni privilegiati).
In questi anni si è assistito ad una forma di cannibalismo intergenerazionale, con “gli anziani” che si nutrivano avidamente dei contributi dei figli. Quando si cominciarono ad intravvedere le conseguenze di questo saccheggio di risorse, era il 1992, si mandò in scena un refrain tipicamente italiano: la toppa a coprire il buco. Allungamento - graduale per carità e non per tutti ché qualche privilegio bisogna comunque garantirlo - del periodo di osservazione del reddito utile al calcolo dell’assegno. Tre anni durò la salvifica riforma Amato che nulla salvava.
Altra toppa nel 1995 (L.335), questa volta più robusta almeno nelle intenzioni, e introduzione - graduale anzi gradualissima - del contributivo. La riforma Dini-Triplice sindacale si basava su due grandi drivers: montante dei contributi versati dai lavoratori e coefficienti di trasformazione. Ora, se per i primi è facile immaginare che poco ci sia da intervenire essendo questa materia indipendente dalla volontà dei governi, per i secondi era logico pensare ad una revisione sistematica e puntuale dei moltiplicatori in base alle aspettative di vita della popolazione. Appuntamento proditoriamente saltato perché la pensione, e il relativo diritto a percepirla (i diritti acquisiti su cui tornerò dopo), è come  la mamma, la chiesa e la nazionale di calcio: intoccabile.
Altro giro, verrebbe da dire di orologio, altra miniriforma. Prodi 1997, appena un anno e mezzo dopo la 335 di Dini, con l’accelerazione della fase transitoria che salvaguardava le pensioni di anzianità.
Non passano tre anni che si mette mano di nuovo ad un aggiustamento, questa volta con D’Alema, con l’istituzione del contributo di solidarietà per le pensioni d’oro. Tregua di quattro anni e nuova toppa con Maroni (L.243/2004) contenente, fra l’altro, il famigerato “scalone”. Di nuovo Prodi (2007) e di nuovo una riforma, la 247, con cui si introduce un nuovo elemento che diventerà gergo comune, quota 95 (somma dell’età del pensionando e  degli anni di lavoro, poi portata a 96). Questa volta il silenzio dura solo 2 anni perché nel 2009 il governo Berlusconi vara la Legge 102 destinato ad innalzare l’età di pensionamento delle donne a 65 anni. Infine arrivano il supertecnico Monti con la supertecnica Fornero e siamo ai giorni nostri.
Dunque di toppa in toppa, di riformina in riformina, le pensioni, che ogni volta nelle conferenze stampa erano messe in sicurezza da qui all’eternità, sono state rimodulate otto volte in 20 anni! Un sistema che funziona non necessita di tanti aggiustamenti. E gli aggiustamenti continui massacrano il paese. Guarda caso l'ha ricordato anche Mario Draghi l'altro ieri, dandomi l'opportunità di aggiungere questa citazione. Lapalissiano no?
Facendo finta di difendere i diritti acquisiti e valutandoli per quello che in realtà sono, ossia aspettative,  verrebbe da dire che i diritti acquisiti sono stati traditi alla media di una volta ogni diciannove mesi, senza garanzia che il film finisca qui.
PERCHÈ RENZI HA RAGIONE E PERCHÈ HA TORTO
La sentenza della suprema Corte apre un buco nei conti pubblici che già sono in equilibrio precario. Ha ragione Renzi a lamentarsi di dover aggiustare i guasti prodotti da altri perché l’Italia non può permettersi sforamenti nella disciplina di bilancio per via dell’elevato debito pubblico e per via di una crescita ancora asfittica . Pagare per intero la perequazione significherebbe dover poi reperire risorse per altri 16-18 miliardi, l’importo di una robusta manovra. Significa, molto probabilmente, far scattare le clausole di salvaguardia in materia di IVA e di accise contenute nella legge di stabilità, con pericolosissime conseguenze sul fronte dei consumi interni.
Renzi ha però anche torto perché non esistono sentenze che si rispettano in quota parte. Non si può dire al giudice “ok, mi hai condannato a 1000,00 euro di risarcimento ma io ne pago soltanto 11,00”.
Se da una parte è corretto privilegiare le pensioni più basse, dall’altra non si può incorrere per l’ennesima volta nella disuguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. Troppe volte a sud delle Alpi si sono applicate le leggi ad alcuni e non ad altri, erogati privilegi in base al censo, alla tipologia di lavoro (chi si ricorda gli 80 euro?) o a qualche altro astruso parametro.
Naturalmente la cosa vale anche al contrario e, combinazione, proprio nelle ore in cui veniva emanata la sentenza sulle pensioni vedeva la luce anche quella sulla inapplicabilità della Tobin Tax, quella tassa per cui se sei un imprenditore di un settore paghi di più di chi opera in un altro. Altro buco di bilancio per le casse dello Stato questo, ma di importo più contenuto (700-800 milioni).
Come reagirà la Corte Costituzionale di fronte alla facilmente immaginabile massa di ricorsi da parte di chi non vedrà rispettata su di sé la sentenza?
Nella tabella successiva è rappresentata una segmentazione dei pensionati per classi di reddito. Quelli che sono nella fascia più alta hanno senza dubbio il diritto di reclamare e cercare giustizia.


Secondo quanto si è appreso dalla conferenza stampa di presentazione del decreto gli esclusi dal rimborso sarebbero dunque circa 670.000. Un esercito. Non solo, il meccanismo ipotizzato “premia” nel migliore dei casi con il 71% di quanto si ha diritto, per cui potenzialmente tutti i 5 milioni e rotti di pensionati potrebbero fare azione per il recupero di quanto loro dovuto.
I TECNICI ALLA PROVA DELLA TECNICA
Qui si pone un altro problema ben conosciuto. È mai possibile che la competenza di strapagati funzionari e direttori dei ministeri produca con questa puntualità norme e leggi che non reggono all’esame di costituzionalità? Della competenza dei politici com’è noto c’è poco da fidarsi ma è davvero inquietante che chi ha la responsabilità, e il potere, di tradurre in norme gli obiettivi del governo che impattano sulla vita dei cittadini dia prova di tanta incommensurabile ignoranza.
Già il governo Monti-Fornero aveva partorito gli esodati, un errore da penna blu cui si sta faticosamente provando a porre rimedio. Il non prevedere che una misura potesse essere cancellata da una sentenza, compromettendo i risultati di una manovra fatta in situazione di drammatica emergenza, è da bocciatura a libretto. A meno che Monti non sapesse e volesse soltanto prendere tempo scaricando su chi sarebbe venuto dopo di lui il peso dell’errore. Se così fosse il giudizio su quell’esperienza di governo sarebbe ancora più severo e senza appello.
DIRITTI ACQUISITI?
Poche formule retoriche sono così fluide e sfuggenti come questa. Si può considerare "diritto acquisito" il contenuto di una norma di legge con cui lo Stato promette un pagamento o una tassa futuri? Ci sono innumerevoli casi in cui la controparte, lo Stato appunto, ha modificato ex post i termini di tali patti: ogni volta che ha cambiato il regime fiscale ha violato una promessa scritta in una legge precedente, idem quando ha alterato un trasferimento verso questa o quell'altra categoria.
D'altro canto, esiste pure un diritto "politico" ad una pensione se si versano i contributi in età lavorativa ed esiste anche un principio costituzionale di uguale trattamento di tutti da parte della legge. Per le generazioni che non hanno usufruito della generosità della politica passata questi diritti sono ora seriamente compromessi.
Posto, per comodità di calcolo, che un pensionato ante riforma Amato andasse in pensione con un assegno pari all’80% dell’ultima retribuzione, un altro, in condizioni omogenee per anzianità lavorativa e contributi versati, ha ora diritto ad un trattamento non superiore al 50%. Una differenza non giustificata dall’aumento dell’aspettativa di vita e determinato solo dai differenti meccanismi applicati. La legislazione pensionistica non tratta tutti i cittadini nella stessa maniera ma li discrimina a seconda dell'età, della categoria professionale, del settore d'occupazione.
È giusto questo? Non lede forse il diritto del pensionato di domani ad una retribuzione “proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé stesso e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”? (art. 36 della costituzione).   
Il dato è che il sistema pensionistico italiano è un gigantesco schema di trasferimento intergenerazionale delle risorse in cui chi è in cima alla piramide sta benone, chi è nel mezzo vivacchia, chi è alla base raccoglie le briciole; chi sarà la base di domani probabilmente neanche quelle.
COSA INSEGNA QUESTA VICENDA
Prima di tutto, ma è una conferma, che siamo governati da incapaci, bravi a promettere, fuoriclasse a sperperare e pessimi a programmare.
In secondo luogo che i diritti acquisiti sono un lusso che non possiamo permetterci ma che nessun politico nel pieno della sua attività avrà mai il coraggio  di ammettere perché si alienerebbe il voto di una larga fetta di elettorato.
In terzo luogo che la consuetudine di rattoppare leggi fatte male spesso le peggiora e nella migliore delle ipotesi sposta solo in avanti il problema facendo pagare il conto a chi verrà.
Infine che il dibattito sulle pensioni è infarcito di cattiva informazione e che, ad esempio, un sistema contributivo non è affatto garanzia di sostenibilità della spesa né di prestazioni. I contributi versati non sono del contribuente ma del sistema che li distribuisce più o meno direttamente ai pensionati.  Non esiste alcun accantonamento dei contributi versati; non esiste alcun impiego degli stessi soldi; non esiste alcuna indicizzazione di quanto risparmiato se non quella che è decisa con una legge e che un’altra legge potrebbe cancellare. Esiste solo un travaso di risorse dai giovani ai vecchi sperando che venga poi qualcuno ancora più giovane che faccia lo stesso e con inconsapevole generosità paghi per la generazione precedente.
Forse è proprio da qui che bisognerebbe partire se si volesse porre fine definitivamente al pastrocchio.
da noisefromamerika.org

martedì 14 aprile 2015

Della corruzione e delle pene

Secondo uno studio OCSE la percezione della corruzione nella pubblica amministrazione in Italia raggiunge il 90%. In questa speciale, e poco onorevole, classifica siamo primi davanti a Grecia e Portogallo e lontanissimi dai Paesi più virtuosi come Svezia e Danimarca. Insomma, non è vero che non sappiamo fare nulla, vi sono cose nelle quali ci impegnamo per davvero.
Che il Belpaese sia maglia rosa di questa bizzarra consuetudine lo si capisce sfogliando un qualunque quotidiano sia nazionale che locale anche senza ricorrere a complicati algoritmi statistici.
Sono passati 23 anni dallo scoppio di tangentopoli ma l’impressione è che da Mario Chiesa a Ercole Incalza nulla sia cambiato nonostante una legge ad hoc sui pubblici appalti (la 109/1994), decaloghi e raccomandazioni sia italiani che esteri, e un’authority nuova di zecca il cui funzionamento è stato su queste pagine da Paolo Piergentili.
Perché in Italia ogni appalto pubblico, ogni opera grande o piccola, ogni evento finanziato dalla tassazione di (quasi) tutti diventa ghiotta occasione per arricchire i già rigonfi portafogli dei soliti noti? Dal Mose all’Expo, dal G8 alla cooperazione, e via via a scendere in ambito locale, non c’è appalto che non sia sfiorato da fenomeni di corruzione e concussione.
Il legislatore reagisce come suo solito - ma sarebbe meglio dire fa finta di reagire - discutendo una nuova legge anticorruzione che inasprisce le pene e allunga i tempi di prescrizione dei reati. Se valesse la regola per cui basta aumentare di due anni la pena – nella fattispecie, da quattro a sei – per evitare la commissione di un reato, allora si potrebbe scrivere un nuovo codice penale che innalza tutte le pene di N anni. Fatto è che il puro inasprimento delle pene può essere funzionale, ma non decisivo, ad una effettiva risoluzione del problema. Se fosse vero l'assunto per cui una pena molto severa ha totale efficacia deterrente contro un crimine, allora in Texas, dove viene applicata alacremente la pena di morte, non avverrebbero più omicidi.
Il problema evidentemente sta (anche) altrove. 
Primo. In Italia non è mai esistito un sistema politico-elettorale capace di generare una vera alternanza nel controllo dei centri di potere, alternanza che implicasse un regolare ricambio sia della classe politica che dell'alta burocrazia pubblica. Anche i nuovi attori di oggi non sono altro che l’espressione dei vecchi sistemi di potere che perpetuano le loro dinamiche. Lo si vede nella timidezza con cui il governo, al di là dei proclami che non costano nulla e fanno sempre audience, affronta, nei fatti, il tema del ricambio della classe politica e di quella burocratica - un esempio su mille: Renzi che "blinda" De Gennaro. Lo si vede nei comportamenti dei parlamentari di Forza Italia, partito che più ha governato negli ultimi 20 anni: il gruppo parlamentare, come in un "pronti, via!" ha opposto con un emendamento la pregiudiziale di incostituzionalità al DDL in discussione al Senato. Lo si vede, alla fine, nella continuità nelle cariche apicali della pubblica amministrazione locale e dei ministeri.
Secondo. Nonostante il codice appalti esistono ancora troppe stazioni appaltanti che hanno il potere di dettare regole ad usum di chi con la PA ha un rapporto quotidiano e confidenziale. Alberto Heimler in un intervento alla Scuola Nazionale Superiore dell’Amministrazione così descrive il fenomeno:
i) I mercati degli appalti pubblici sono frequentemente caratterizzati da cartelli
ii) I concorrenti si mettono d’accordo per suddividersi fra loro le gare e aggiudicarsele ad un prezzo più elevato
iii) L’accordo si risolve (quasi) sempre in una rotazione su chi si aggiudica la gara di turno
iv) Talvolta i concorrenti si accordano per non partecipare ad una gara in cambio di un subappalto
È evidente che chi può riesce ad aggirare le regole, spesso grazie alla collaborazione di chi, nell’ente appaltante, dovrebbe garantire il regolare funzionamento della gara e il miglior prezzo e le migliori condizioni per la pubblica amministrazione.
Ah, a proposito di "insiders", l'ironia della sorte, nel cercare materiale per questo post, ci ha portato qui. Non male come esempio di scuola, no? 
Terzo. La cultura di cui è permeato il paese tratta la corruzione e la collusione con indulgenza perché rappresenta per tanti la scorciatoia segreta attraverso la quale si aggira la competizione e si evita l’investimento in produttività ed efficienza. Funziona meglio il capitalismo di relazione che il capitalismo di competizione, almeno in un sistema come quello italiano; il problema è che funziona per pochi e sempre i soliti. Paga esser vicini al politico potente che può garantire corsie preferenziali negli appalti, ma anche nell’accesso al credito, nelle assunzioni, negli incarichi di consulenza ecc.
Dunque non può essere una legge o una singola norma a "moralizzare" un insieme di interessi ben saldi e consolidati.
Serve un corpo di leggi quadro che di concerto operi su quattro grandi capitoli: a) semplificazione delle procedure, perché dietro la complessità delle norme si nasconde sempre il vantaggio di chi quelle norme sa come interpretarle e utilizzarle; b) piena e totale trasparenza sui criteri di aggiudicazione delle gare e sulle procedure di affidamento degli incarichi, perché i fenomeni corruttivi (e concussivi) non possono essere combattuti solo ex post ma soprattutto evitati ex ante; c) un'authority dotata di pieni poteri che garantisca meritocrazia ed esercizio della libera concorrenza fra imprese, che sia finalmente sopra le autorità speciali dei ministeri, come ad esempio la Struttura Tecnica di Missione affidata ad Ercole Incalza prima come dirigente poi come consulente esterno; d) incarichi a tempo determinato delle posizioni apicali a nomina politica della pubblica amministrazione per evitare che si consolidino rapporti troppo stretti fra chi detiene il potere di orientare gli appalti e chi partecipa alle gare. 
Non è un caso se la legge 109/93, prima, e il codice appalti (dlgs. 163/2006), poi, si siano rivelati inefficaci nella prevenzione della corruzione. E non è un caso se le cosidette grandi opere siano state quasi sempre affidate a commissari speciali dopo che erano stati scoperti gravi episodi di corruzione. Poco o nulla si è fatto in questi 20 anni sul fronte della trasparenza, vero nodo gordiano del problema. Manca un open data set che consenta a chiunque di consultare come e a chi i bandi sono assegnati, quali soggetti prestano le controgaranzie richieste dai disciplinari e altre cruciali informazioni. Un portale in cui tutti i record relativi alle assegnazioni siano di pubblica consultazione. Sarebbe questo un deterrente molto più efficace degli aumenti di pena e dell'allungamento dei tempi di prescrizione.
L'istituzione del Consip è stata un passo avanti non sufficiente su cui torneremo in un prossimo pezzo. Trasparenza serve sui bilanci dei partiti, sulle donazioni ricevute dai politici e dalle fondazioni da loro fondate o a loro riconducibili.
D'altra parte le disposizioni emanate dall'Anac per prevenire fenomeni di corruzione sembrano destare poco interesse fra i destinatari. Entro il 31 gennaio 2014 tutte le amministrazioni comunali dovevano presentare un piano triennale di prevenzione della corruzione (PTPC) e darne attuazione. I dati puntuali relativi all'attuazione dei PTPC si possono consultare in questa pagina curata da Franco Mostacci. L'interesse mostrato dalle amministrazioni locali si evince dal dato desolante relativo al divieto di presenza di condannati nelle commissioni e negli uffici: solo in sette comuni è stata fatta un'attività di verifica di questa condizione. In generale sembra esserci un imbarazzante scollamento fra percezione della corruzione e cronaca quotidiana da una parte e reazione delle amministrazioni pubbliche dall'altra. 
Emblematico è il caso del responsabile della trasparenza e della prevenzione della corruzione al comune di Roma, Italo Walter Politano, indagato per associazione a delinquere di stampo mafioso. Dopo il provvedimento di garanzia la giunta Marino l'ha sostituito ma non ha potuto sospenderlo fino a chiarimento della sua posizione, perché la legge non consente la sospensione di un dirigente. Politano oggi è a capo dell'Ufficio Decentramento. È dunque la legge stessa ad impedire che un (presunto) lupo sia a guardia del gregge.  
I partiti invece preferiscono spostare pilatescamente il dibattito sulle tecnicalità giuridiche e sull'uso delle intercettazioni.
I politici di destra senza alcun ritegno, quelli di sinistra più sommessamente (fa eccezione D' Alema), si lamentano della pubblicazione delle intercettazioni; in alcuni casi addirittura dello strumento stesso dell'intercettazione. Essere coinvolti, loro malgrado, mentre qualcuno suggerisce di acquistare 2000 bottiglie di Pinot e Cabernet perché chi lo produce è politicamente più influente di una Cantina Bentivoglio qualsiasi, può essere spiacevole; ma un politico senza macchia dovrebbe limitarsi a rivendicare la qualità del proprio vino, non minacciare di querela chiunque capiti a tiro. Anzi dovrebbe essere il primo a chiedere trasparenza, dopo che, svariati lustri ai vertici della politica italiana, per la trasparenza ha fatto nulla. È bene ricordare che, salvo rarissimi casi, le intercettazioni finiscono sui giornali perché sono già diventate atti pubblici e quindi la loro pubblicazione non solo non viola alcuna norma ma nemmeno alcuna segretezza. La secretazione di rapporti men che limpidi non è meno indesiderabile della gogna pubblica che deriva dalla pubblicazione di conversazioni riservate: dipende dal valore relativo che uno pone su moralità della vita pubblica e privacy del politico o del burocrate. Personalmente privilegio la prima, visto che il costo sociale della sua continua violazione è diventato enorme. Chi occupa ruoli di responsabilità politica e amministrativa non può invocare ragioni di privacy se lo scudo della riservatezza può nascondere illeciti comportamenti. Il diritto dei cittadini di sapere da chi sono governati è sacrosanto al pari della democrazia; anzi ne è parte fondante.
La corruzione non è solo un danno d'immagine per il paese. Calcolarne l'impatto sui conti pubblici è pressoché impossibile, anche se in giro qualcuno che abbia provato a fare i conti si trova. Le stime più a la page parlano di sessanta miliardi all'anno sebbene la stessa Corte dei Conti, cui si attribuisce la cifra, abbia dichiarato che non è possibile una quantificazione puntuale. È certo però che il danno c'è ed è enorme perché, oltre a rimetterci contabilmente, la PA ci rimette in efficienza e il paese ci rimette sotto il profilo della crescita della ricchezza. Si pensi solo a quante aziende straniere non investono in Italia per non trovarsi invischiate in meccanismi da terzo mondo; si pensi a quanti operatori italiani non investono perché fuori dal "giro giusto"; si pensi a quante aziende continuano a preferire di essere sottodimensionate pur di non rischiare che gli investimenti fatti per diventare competitive siano vanificati da un sistema in cui non si "deve" competere.
Mentre scriviamo queste righe il manager della Cpl Concordia Francesco Simone arrestato nell'inchiesta di Ischia, svela come funzionava il giro di mazzette che consentiva alla cooperativa di aggiudicarsi gli appalti. Ieri il Pio Albergo Trivulzio e il partito socialista; oggi una cooperativa e un giro di sindaci e senatori. Ventitre anni e non è cambiato niente.

sabato 11 aprile 2015

La matematica creativa di Renzi - Parte 1

Pubblicato il DEF 2015 mi accingo ancora una volta al sacrificio. Ammetto di partire prevenuto; tutti i precedenti documenti di economia e finanza contenevano numeri e previsioni buoni per i libri di favole e non per avere un segnale puntuale per lo stato dell'economia. Naturalmente gli ultimi due made in Renzi (Def 2014 e aggiornamento) non facevano eccezione, avendo Matteo da Rignano fatto dell'ottimismo creativo un spot permanente più ripetitivo di quello di Tonino Guerra.


Parto dunque dall'introduzione che al solito è col botto:

  • 1,6 miliardi di tesoretto, di cui decidere la destinazione in un imminente consiglio dei ministri (le elezioni si avvicinano e bisogna pur dare uno zuccherino agli elettori);
  • la clausola di salvaguardia dell'aumento IVA scongiurato
Il miliarduccio e spiccioli di maggiore dotazione deriverebbe dalle migliorate previsioni di crescita passate allo 0,7%. E' una previsione naturalmente ma i soldi per Renzi sono lì, tutti da spendere. E' come se in una sala scommesse il banco pagasse le vincite prima che sia finita la partita. 
Invece prudenza e raziocinio suggerirebbero di verificare il risultato finale prima di elargire premi. Questa fretta sembra la stessa che attanagliò il governo un anno fa quando gli 80 euro erano necessari ed urgenti.

Staremo a vedere

L'aumento dell'IVA è scongiurato, leggiamo, "grazie al miglioramento del quadro macroeconomico -che si riflette in un aumento del gettito - e alla flessione della spesa per interessi rispetto alle previsioni dello scorso autunno". 
Nulla la dire sul secondo punto perché grazie al QE i titoli pubblici di nuova emissione si sono effettivamente ridotti significativamente sino quasi a sfiorare i rendimenti negativi su quelli a breve (0,013% quello dei Bot a 12 mesi).
Sulle previsioni di gettito invece l'ottimismo del governo è all'ingrosso.
Sul sito del Ministero dell'Economia infatti si può leggere che nel bimestre gennaio-febbraio le entrate tributarie sono in calo dello 0,8% rispetto allo stesso periodo dello scorso anno. Aumentano quelle da imposte dirette (+1,9%) ma diminuiscono del 4,7% quelle da imposte indirette con un decremento del gettito IVA del 5,6%.

Insomma l'economia è tutt'altro che in salute, in special modo con riguardo ai consumi (-5% gli scambi interni) e alle accise sui prodotti energetici (indicatore importantissimo che cala addirittura del 9,3%).

E' presto per trarre delle conclusioni; magari nei prossimi mesi ci sarà un miglioramento del quadro economico. 
Per adesso rileviamo solo che l'ottimismo sembra il profumo della vita ma in realtà, in politica, è una flatulenza.

mercoledì 18 febbraio 2015

I 10 punti di Salvini. Parte 3

Riprendo l'analisi del programma di Salvini dopo l'approfondimento sulla spesa pubblica. Cercherò di essere breve perché molti dei punti rimanenti sono ridondanze dei primi 5 e perché l'ultima parte di questo articolo dovrò, ahimé, dedicarlo ancora una volta a Borghi, che con incoscienza si lancia nel suo sport preferito (arrampicarsi sui vetri) per difendere un programma indifendibile (qui il link).

Quinto punto: politiche anticicliche mirate alla piena occupazione. I governi Monti Letta e Renzi hanno attuato politiche pro cicliche che hanno creato disoccupazione.
In recessione l’ austerità è suicida. I trattati europei (Fiscal Compact in primis) devono essere subordinati alla sostenibilità economica e alla priorità della ricerca della massima occupazione, esattamente come recitano i mandati di banche centrali che agiscono in cooperazione con il governo come ad esempio la Federal Reserve. Lo stato deve pertanto essere in grado di poter avere flessibilità di bilancio (meno tasse o maggior deficit) qualora l’ economia risulti in recessione e il tasso di disoccupazione sia superiore alla disoccupazione fisiologica.

La piena occupazione è una magnifica e desiderabile icona. Degna del Pcus e della MMT, purtroppo. La via che Salvini traccia per raggiungerla è quella del deficit che, detta in altre parole, vuol dire accumulare altro debito che generazioni successive dovranno pagare. Vero è che l'austerity, così come è stata declinata e interpretata da ottusi euroburocrati e incompetenti economisti da talk show, può in fase di recessione essere pro-ciclica (si legga nel caso l'ottimo saggio di Mario Seminerio La Cura Letale), ma altrettanto vero è che austerity, nella versione corretta indicata a più riprese dalla BCE e da Mario Draghi, significa controllo dei conti: non spendere senza coperture e nel caso ridurre le spese riducendo contemporaneamente la pressione fiscale (dichiarazione del 7 agosto 2014 ad esempio). Quanto al fiscal compact citato in  primis ne parlai qui per dimostrare che non è quel mostro che i no euro descrivono perché, sintetizzo, prevede maglie molto più larghe di quanto viene detto in giro (output gap).

Sesto punto: abolizione della legge Fornero. Il primo “regalo” di Monti fu la legge Fornero e quindi dev’essere una delle prime cose ad essere spazzata via.  Un sistema previdenziale che diventa contributivo ma al contempo lascia i lavoratori privi di un lavoro e della pensione è assurdo, barbaro e deve essere abolito. Il concetto stesso di pensione contributiva dovrebbe comportare la possibilità di andare in pensione a qualsiasi età, ovviamente con una pensione corrispondente ai contributi versati e attualizzata all’ aspettativa di vita. In buona sostanza in ogni momento il cittadino deve essere libero di poter riavere i propri contributi scegliendo se ottenere un assegno basso ritirandosi dopo meno anni lavorativi oppure una pensione più elevata lavorando più a lungo.

Qui viene fuori quella confusione cialtrona alla quale la Lega ci ha abituato. La legge Fornero, buona o brutta che sia, non istituisce la figura dell'esodato. La brutta vicenda dei lavoratori che si son trovati senza stipendio e senza pensione è stata una porcata frutto di un errore si gravissimo ma che resta un errore tecnico. I tecnici del ministero, o la stessa Fornero e Monti, non incrociarono i dati di chi aveva usufruito della finestra di pensionamento offerta dagli accordi con i datori di lavoro in forza della riforma Sacconi. Il sistema pensionistico non lascia i lavoratori privi di lavoro e di assegno pensionistico; innalza solo l'età di quiescenza.

Settimo punto: no Ttip. Mentre il Pd manda Gianni Pittella in missione con lo scopo di accelerare le trattative sul trattato di apertura transatlantica dei mercati nessuno ha informato delle conseguenze che una simile pazzia potrebbe avere. Spalancare ulteriormente l’ Italia alla concorrenza estera mentre la nostra industria, la nostra agricoltura e il nostro allevamento sono in ginocchio significherebbe dare il colpo di grazia alla nostra economia. Entrare in aree di libero scambio sempre più grandi, con lo svantaggio di una moneta artificialmente sopravvalutata per la nostra economia e, per di più, demandando ad altri le autorità di controllo e sorveglianza equivale a mettere a nuotare i nostri figli in una piscina piena di coccodrilli. 


Mamma mia, poveri i nostri figli costretti a nuotare in mezzo ad affamati rettili primitivi! Il problema posto da Salvini dunque sarebbe superato se la moneta che utilizziamo fosse più debole. Problema risolto: l'euro nell'ultimo anno si è svalutato sui mercati quasi del 20%


E' la competizione che ci deve far paura posto che l'evocato problema della valuta troppo forte è stato superato? Se Salvini, e Borghi, avessero un po' di onestà intellettuale abbandonerebbero questo argomento superato ormai dai fatti e dalla storia.
Ma aver paura della competizione significa anche ammettere la scarsa qualità dei nostri prodotti, la insufficiente produttività delle nostre industrie, e non è né può essere il ritorno all'autarchia la soluzione.

Ottavo punto: valorizzare le diversità e controllare le frontiere. Il Pd preme per l’ azzeramento degli enti locali in Italia, la cessione di sovranità a Bruxelles e l’ annegamento globalista in un mondo dominato dalle grandi multinazionali rese “competitive” dalla mano d’ opera a basso prezzo incoraggiata ad invaderci con “mare nostrum” e frontiere aperte. Noi, anche qui, vogliamo l’ esatto contrario. Siamo convinti che il “frullato” di culture e sapori faccia comodo solo a pochi e che invece nella diversità, nelle tradizioni e nelle autonomie locali vi sia la vera ricchezza. 

Chi ha qualche anno come me ricorda certamente il SIM, Stato Imperialista delle Multinazionali, evocato dalle Risoluzioni strategiche delle Brigate Rosse. Non voglio entrare nel problema delle frontiere ora che la minaccia Isis si presenta sulle coste della Libia; magari scriverò un post ad hoc.

Nono punto: si può tassare solo se c’ è reddito. Monti Letta e Renzi hanno affrontato l’ aumento della disoccupazione inseguendo i beni dei cittadini con gabelle assurde inventate con la scusa di “trasferire le tasse dal lavoro alle cose”. In realtà questo sistema si è rivelato semplicemente un furto permanente e un modo di far pagare anche i disoccupati. Il principio che proponiamo è molto semplice: non può esserci tassa in assenza di reddito. 

Finalmente, al nono tentativo, qualcosa di sensato. Esposto in modo approssimativo ma tutto non si può avere.

Decimo punto: superamento del sistema dei trasferimenti fiscali. [...]Noi proponiamo un sistema dove nessuno debba pagare per altri e dove ognuno possa essere competitivo con le proprie forze con sistemi di aggiustamento diversi dalla disoccupazione e dalla miseria. Pertanto dopo un iniziale ritorno allo status quo pre euro, necessario per rimettere in piedi il tessuto industriale del nord Italia con l’ aiuto di una valuta più leggera, occorrerà pensare a meccanismi di flessibilità (come ad esempio due monete) per riequilibrare la competitività del sud esattamente nello stesso modo in cui si cerca il recupero della competitività italiana verso la Germania.

Altra confusione dietro la quale, a fatica, mi sembra di scorgere un po' di federalismo. Il partito nato per lottare per un'Italia Federale, che più volte ha tentato la carta dialettica della secessione, dedica alla sua ragion d'essere poche e confuse parole? La doppia moneta è una boiata (come tutelerebbe le aziende che usano la moneta debole e devono scambiare merci e servizi con quelli che usano quella forte? Provate ad andare a Londra e convertire 1000 euro in pounds e poi ne parliamo). Sarebbe interessante invece parlare di residuo fiscale e trasferimenti ma sono argomenti troppo complessi per un programma elaborato da NoiconSalvini.

Prima di chiudere, ché il post è già troppo lungo, come promesso occorre spendere due parole sulla difesa di Claudio Borghi.
Dice Borghi che il debito pubblico non è la causa della crisi "altrimenti qualcuno mi deve spiegare per quale motivo  con Berlusconi era al 120% e lo spread a 500, con Monti pure (falso n.d.r), poi quando è intervenuto Draghi lo spread è calato e invece il debito ha continuato a crescere fino al 135%."
Tutto qui, oh grande economista? E' questo l'argomentare sul debito che non è un problema?
Il debito è un problema se:
i) non è sostenibile
ii) la spesa per interessi supera una certa soglia del conto economico nazionale
La condizione sub i) si verificò nel 2011 col debito al 120% perché il governo Berlusconi non sembrava mettesse in piedi politiche economiche sensate. Nello stesso tempo non esisteva un programma di intervento europeo di salvaguardia delle contabilità nazionali e non esisteva nessuno strumento di intervento della BCE. Adesso che ESM e QE sono in piedi e operativi (le misure non convenzionali evocate da Draghi per tranquillizzare i mercati) il rischio di default dell'Italia è molto inferiore ad allora e questo si riflette sui tassi, quindi sullo spread. It's simple, that's it mr. Borghi.

La spesa per interessi ii) grazie a quanto scritto sopra si è ridotta al 3,7%, al minimo dal 1970; l'indice generale delle emissioni Italia a dicembre scorso è sceso fino all'1,55 (0,22 quello sui BOT), un livello che non si vedeva dal periodo pre-crisi. Tanto per utilizzare una pietra di paragone cara al duo Salvini-Borghi, l'ultimo rendistato prima dell denominazione in euro di tutti gli strumenti finanziari valeva il 6,98%.

Ecco caro Claudio Borghi perché il debito non è un problema.