mercoledì 18 febbraio 2015

I 10 punti di Salvini. Parte 3

Riprendo l'analisi del programma di Salvini dopo l'approfondimento sulla spesa pubblica. Cercherò di essere breve perché molti dei punti rimanenti sono ridondanze dei primi 5 e perché l'ultima parte di questo articolo dovrò, ahimé, dedicarlo ancora una volta a Borghi, che con incoscienza si lancia nel suo sport preferito (arrampicarsi sui vetri) per difendere un programma indifendibile (qui il link).

Quinto punto: politiche anticicliche mirate alla piena occupazione. I governi Monti Letta e Renzi hanno attuato politiche pro cicliche che hanno creato disoccupazione.
In recessione l’ austerità è suicida. I trattati europei (Fiscal Compact in primis) devono essere subordinati alla sostenibilità economica e alla priorità della ricerca della massima occupazione, esattamente come recitano i mandati di banche centrali che agiscono in cooperazione con il governo come ad esempio la Federal Reserve. Lo stato deve pertanto essere in grado di poter avere flessibilità di bilancio (meno tasse o maggior deficit) qualora l’ economia risulti in recessione e il tasso di disoccupazione sia superiore alla disoccupazione fisiologica.

La piena occupazione è una magnifica e desiderabile icona. Degna del Pcus e della MMT, purtroppo. La via che Salvini traccia per raggiungerla è quella del deficit che, detta in altre parole, vuol dire accumulare altro debito che generazioni successive dovranno pagare. Vero è che l'austerity, così come è stata declinata e interpretata da ottusi euroburocrati e incompetenti economisti da talk show, può in fase di recessione essere pro-ciclica (si legga nel caso l'ottimo saggio di Mario Seminerio La Cura Letale), ma altrettanto vero è che austerity, nella versione corretta indicata a più riprese dalla BCE e da Mario Draghi, significa controllo dei conti: non spendere senza coperture e nel caso ridurre le spese riducendo contemporaneamente la pressione fiscale (dichiarazione del 7 agosto 2014 ad esempio). Quanto al fiscal compact citato in  primis ne parlai qui per dimostrare che non è quel mostro che i no euro descrivono perché, sintetizzo, prevede maglie molto più larghe di quanto viene detto in giro (output gap).

Sesto punto: abolizione della legge Fornero. Il primo “regalo” di Monti fu la legge Fornero e quindi dev’essere una delle prime cose ad essere spazzata via.  Un sistema previdenziale che diventa contributivo ma al contempo lascia i lavoratori privi di un lavoro e della pensione è assurdo, barbaro e deve essere abolito. Il concetto stesso di pensione contributiva dovrebbe comportare la possibilità di andare in pensione a qualsiasi età, ovviamente con una pensione corrispondente ai contributi versati e attualizzata all’ aspettativa di vita. In buona sostanza in ogni momento il cittadino deve essere libero di poter riavere i propri contributi scegliendo se ottenere un assegno basso ritirandosi dopo meno anni lavorativi oppure una pensione più elevata lavorando più a lungo.

Qui viene fuori quella confusione cialtrona alla quale la Lega ci ha abituato. La legge Fornero, buona o brutta che sia, non istituisce la figura dell'esodato. La brutta vicenda dei lavoratori che si son trovati senza stipendio e senza pensione è stata una porcata frutto di un errore si gravissimo ma che resta un errore tecnico. I tecnici del ministero, o la stessa Fornero e Monti, non incrociarono i dati di chi aveva usufruito della finestra di pensionamento offerta dagli accordi con i datori di lavoro in forza della riforma Sacconi. Il sistema pensionistico non lascia i lavoratori privi di lavoro e di assegno pensionistico; innalza solo l'età di quiescenza.

Settimo punto: no Ttip. Mentre il Pd manda Gianni Pittella in missione con lo scopo di accelerare le trattative sul trattato di apertura transatlantica dei mercati nessuno ha informato delle conseguenze che una simile pazzia potrebbe avere. Spalancare ulteriormente l’ Italia alla concorrenza estera mentre la nostra industria, la nostra agricoltura e il nostro allevamento sono in ginocchio significherebbe dare il colpo di grazia alla nostra economia. Entrare in aree di libero scambio sempre più grandi, con lo svantaggio di una moneta artificialmente sopravvalutata per la nostra economia e, per di più, demandando ad altri le autorità di controllo e sorveglianza equivale a mettere a nuotare i nostri figli in una piscina piena di coccodrilli. 


Mamma mia, poveri i nostri figli costretti a nuotare in mezzo ad affamati rettili primitivi! Il problema posto da Salvini dunque sarebbe superato se la moneta che utilizziamo fosse più debole. Problema risolto: l'euro nell'ultimo anno si è svalutato sui mercati quasi del 20%


E' la competizione che ci deve far paura posto che l'evocato problema della valuta troppo forte è stato superato? Se Salvini, e Borghi, avessero un po' di onestà intellettuale abbandonerebbero questo argomento superato ormai dai fatti e dalla storia.
Ma aver paura della competizione significa anche ammettere la scarsa qualità dei nostri prodotti, la insufficiente produttività delle nostre industrie, e non è né può essere il ritorno all'autarchia la soluzione.

Ottavo punto: valorizzare le diversità e controllare le frontiere. Il Pd preme per l’ azzeramento degli enti locali in Italia, la cessione di sovranità a Bruxelles e l’ annegamento globalista in un mondo dominato dalle grandi multinazionali rese “competitive” dalla mano d’ opera a basso prezzo incoraggiata ad invaderci con “mare nostrum” e frontiere aperte. Noi, anche qui, vogliamo l’ esatto contrario. Siamo convinti che il “frullato” di culture e sapori faccia comodo solo a pochi e che invece nella diversità, nelle tradizioni e nelle autonomie locali vi sia la vera ricchezza. 

Chi ha qualche anno come me ricorda certamente il SIM, Stato Imperialista delle Multinazionali, evocato dalle Risoluzioni strategiche delle Brigate Rosse. Non voglio entrare nel problema delle frontiere ora che la minaccia Isis si presenta sulle coste della Libia; magari scriverò un post ad hoc.

Nono punto: si può tassare solo se c’ è reddito. Monti Letta e Renzi hanno affrontato l’ aumento della disoccupazione inseguendo i beni dei cittadini con gabelle assurde inventate con la scusa di “trasferire le tasse dal lavoro alle cose”. In realtà questo sistema si è rivelato semplicemente un furto permanente e un modo di far pagare anche i disoccupati. Il principio che proponiamo è molto semplice: non può esserci tassa in assenza di reddito. 

Finalmente, al nono tentativo, qualcosa di sensato. Esposto in modo approssimativo ma tutto non si può avere.

Decimo punto: superamento del sistema dei trasferimenti fiscali. [...]Noi proponiamo un sistema dove nessuno debba pagare per altri e dove ognuno possa essere competitivo con le proprie forze con sistemi di aggiustamento diversi dalla disoccupazione e dalla miseria. Pertanto dopo un iniziale ritorno allo status quo pre euro, necessario per rimettere in piedi il tessuto industriale del nord Italia con l’ aiuto di una valuta più leggera, occorrerà pensare a meccanismi di flessibilità (come ad esempio due monete) per riequilibrare la competitività del sud esattamente nello stesso modo in cui si cerca il recupero della competitività italiana verso la Germania.

Altra confusione dietro la quale, a fatica, mi sembra di scorgere un po' di federalismo. Il partito nato per lottare per un'Italia Federale, che più volte ha tentato la carta dialettica della secessione, dedica alla sua ragion d'essere poche e confuse parole? La doppia moneta è una boiata (come tutelerebbe le aziende che usano la moneta debole e devono scambiare merci e servizi con quelli che usano quella forte? Provate ad andare a Londra e convertire 1000 euro in pounds e poi ne parliamo). Sarebbe interessante invece parlare di residuo fiscale e trasferimenti ma sono argomenti troppo complessi per un programma elaborato da NoiconSalvini.

Prima di chiudere, ché il post è già troppo lungo, come promesso occorre spendere due parole sulla difesa di Claudio Borghi.
Dice Borghi che il debito pubblico non è la causa della crisi "altrimenti qualcuno mi deve spiegare per quale motivo  con Berlusconi era al 120% e lo spread a 500, con Monti pure (falso n.d.r), poi quando è intervenuto Draghi lo spread è calato e invece il debito ha continuato a crescere fino al 135%."
Tutto qui, oh grande economista? E' questo l'argomentare sul debito che non è un problema?
Il debito è un problema se:
i) non è sostenibile
ii) la spesa per interessi supera una certa soglia del conto economico nazionale
La condizione sub i) si verificò nel 2011 col debito al 120% perché il governo Berlusconi non sembrava mettesse in piedi politiche economiche sensate. Nello stesso tempo non esisteva un programma di intervento europeo di salvaguardia delle contabilità nazionali e non esisteva nessuno strumento di intervento della BCE. Adesso che ESM e QE sono in piedi e operativi (le misure non convenzionali evocate da Draghi per tranquillizzare i mercati) il rischio di default dell'Italia è molto inferiore ad allora e questo si riflette sui tassi, quindi sullo spread. It's simple, that's it mr. Borghi.

La spesa per interessi ii) grazie a quanto scritto sopra si è ridotta al 3,7%, al minimo dal 1970; l'indice generale delle emissioni Italia a dicembre scorso è sceso fino all'1,55 (0,22 quello sui BOT), un livello che non si vedeva dal periodo pre-crisi. Tanto per utilizzare una pietra di paragone cara al duo Salvini-Borghi, l'ultimo rendistato prima dell denominazione in euro di tutti gli strumenti finanziari valeva il 6,98%.

Ecco caro Claudio Borghi perché il debito non è un problema.

venerdì 13 febbraio 2015

I 10 punti di Salvini. Parte 2

Prima di proseguire nell'analisi del programma elaborato dalla Lega Nord, occorre aprire una parentesi sulle prime reazioni che le orde leghiste hanno avuto alle critiche di ieri. Capofila di questo branco (detto non in modo dispregiativo) ca va sans dire è Claudio Borghi, i cui commenti sono al solito sintetici e offensivi senza che mai si degni di una risposta argomentata quale il suo ruolo di "economista" gli imporrebbe.

Dunque, la principale contestazione riguarda l'assioma spesa pubblica-crescita, o altrimenti declinato, taglio spesa pubblica-recessione.

Il principio da cui partono, come avevo scritto anche nella prima parte, è che la spesa pubblica, poiché è componente del PIL, non va tagliata nelle fasi economiche recessive perché accentuerebbe ulteriormente la recessione.

Il tipo di ragionamento è formalmente corretto ma sostanzialmente risibile. E' come confondere la macroeconomia con l'algebra da terza elementare. Avete presente i problemi che sono a chiamati a risolvere i vostri figli?

La mamma ha 50 euro in borsa. Se spende 10 euro per le bistecche, 2 euro per la frutta e 5 euro per il parmigiano, quanto le resterà in borsa? La risposta che darei io è 50 euro, perché la mamma va a fare la spesa con la carta di credito di papà; quella di mia figlia invece 33, frutto della sottrazione [50-10-2-5=33].
Nella contabilità delle elementari avrebbe ragione mia figlia, mentre in quella nazionale la ragione può pendere dalla mia parte. Vediamo il perché.

Prendiamo prima di tutto un grafico che compara l'andamento della spesa pubblica in Eurozona, nei cosiddetti PIIGS e nei Paesi extra UE in ripresa. La fonte è il FMI.


Possiamo osservare che la dinamica media è decrescente in tutte e tre le aree e che la spesa pubblica aggregata nei Paesi extra Euro è tendenzialmente più bassa di 4-6 punti percentuali rispetto all'Europa.
Dunque con riduzione della spesa pubblica ci sono Paesi in crescita e Paesi in recessione. Possiamo dedurne che non c'è correlazione positiva fra spesa e pil, contrariamente a quanto sostenuto dai fans neokeynesiani.

Uno degli ex grandi malati d'Europa era il Belgio. Agli inizi degli anni 90 il piccolo regno si trovava in una situazione molto simile a quella in cui si trova oggi l'Italia. Elevato debito pubblico, livelli di spesa primaria oltre il 50% della ricchezza prodotta, pressione fiscale intorno al 45%. I governi liberali vararono attraverso misure congiunte una imponente opera di consolidamento del debito, calato dal 140% all''84%, congelando la spesa pubblica, calata del 5,5% su pil in 9 anni, e riequilibrando il gettito fiscale premiando la fiscalità sui redditi e aumentando, di poco, quella sui consumi.

Ma c'è di più. Se davvero la spesa pubblica fungesse da stimolo per l'economia, com'è che in un Paese come l'Italia in cui dal 1997 ad oggi è cresciuta di 70 punti (ovvero di più di 300 miliardi) l'economia va così male?

La realtà è che non si possono declinare fenomeni così complessi con pochi approssimativi slogan. Un programma elettorale può permetterselo nella misura in cui non verrà attuato. Ed è proprio questo il caso del programma di Matteo Salvini.


giovedì 12 febbraio 2015

I 10 punti di Salvini. Di sutura. Parte 1

Con uno sforzo che deve essere stato titanico Salvini abbandona gli slogan-ma non le felpe- e si lancia in un esercizio per lui e per il suo partito inusuale: elaborare un programma politico articolato nientepocodimenoche in 10 punti. Fate un oohhhh di meraviglia.

Non sarebbe neanche commentabile se non per il fatto che una roba del genere, bestialmente semplice o semplicemente bestiale, in Italia rischia di avere davvero successo.

Andiamo dunque a vedere quali sono le 10 magnifiche ricette comparse su noiconsalvini.org , il movimento dedicato ai neoleghisti terroni, e stranamente non sul sito ufficiale della Lega Nord.

Per brevità prenderò di ognuno dei punti solo le frasi salienti, stando comunque attento a non interpretar male il Salvini-Pensiero (sigh).

Primo punto: meno Europa. Nel nome del “Più Europa” si sono accettati provvedimenti che hanno messo in ginocchio la nostra economia. La distruzione della domanda interna attuata con tagli e tasse aveva un solo scopo: riequilibrare la bilancia commerciale che era in costante deficit per colpa di una moneta (l’ euro) troppo forte per la nostra economia. Riducendo i consumi si sarebbe importato di meno senza impattare sulle esportazioni. L’ obiettivo è stato raggiunto ma a costo di mettere in ginocchio il lavoro e la produzione.

Liberali, fenomenologia di una diaspora

A scadenze più o meno regolari la surreale galassia liberale italiana va in fibrillazione per promuovere una unione di tutte le associazioni/partiti/movimenti che si riconoscono in una visione aperta della società. Recentemente ho partecipato ad una trasmissione radio del gruppo più attivo e probabilmente entusiasta di questo variegato mondo, il MIT (Modernizzare l'Italia), promotore tra l'altro della bella iniziativa Liberal Camp.

L'assunto, romantico e ahimè velleitario, è che gruppi e gruppuscoli dalle idee più o meno affini dovrebbero smetterla di orbitare in ordine sparso come gli asteroidi della fascia di Kuiper e unirsi in qualcosa di più grande e numericamente significativo.

Per comprendere perché questo rassemblement non ha mai prodotto altro che insuccessi, occorre capire di cosa si parla e quali sono i fenomeni sociali che si nascondono dietro il mito politico liberale.

Liberali à la carte

Sono quella specie che sembra sempre sull'orlo dell'estinzione ma ricompare quando meno te l'aspetti negli habitat più impensabili, ad esempio qualche zoo: pensi che siano dei dodo e invece si rivelano essere dei panda.
Sono i Benedetto Della Vedova della situazione (dovesse leggere questo post, Benedetto non se ne abbia a male ché non è l'unico). Luisella Costamagna su Il Fatto Quotidiano ( qui il link) ha ricordato magistralmente il suo percorso politico; percorso che sembra uno slalom speciale del mondiale di sci.

Benedetto Della Vedova, lei è sconosciuto ai più, nonostante sia in politica addirittura dal 1994. Come mai? Credo che la ragione stia nel fatto che lei ricorda il principio di indeterminazione di Heisenberg, secondo il quale – in soldoni – non è possibile conoscere in assoluto una particella, perché non appena la osservi questa si modifica.
La particella Della Vedova sembra comportarsi nello stesso modo: appena a fatica la identifichi, leghi il nome a quella faccia e a quel partito – “Ah sì Della Vedova è quello dei…” – zac, veloce come un positrone al Cern, ecco che lei si trasforma, passa a un altro partito.


Liberali à la carte sono anche quelli che in un partito ci entrano e ci rimangono a dispetto di ogni evidenza di incoerenza rispetto a certi princìpi. Ce ne sono praticamente in ogni partito, dal PD a Forza Italia. Anzi proprio tra le fila del partito del Bunga Bunga si trovano fulgidi esempi di incoerenza con "liberali doc" che hanno votato negli anni i peggiori provvedimenti socialistoidi voluti da quel genio dell'incompetenza che risponde al nome di Giulio Tremonti.

Liberali nostalgici

Sono quelli che aspettano ancora un sussulto di vita da parte di Cavour e Einaudi. Delle spoglie mortali dei due giganti del pensiero hanno anche la stessa verve. Vivono nel passato remoto e ragionano come se il 1861 sia ancora di là da venire. Come gli ultimi dei mohicani sono aggrappati ad un simbolismo quasi mistico (la bandiera, la patria, i colori, i padri) e non si rendono conto che il mondo intorno a loro è cambiato. Usando una metafora cara a Renzi potrei dire che comunicano con penna e carta e calamaio mentre il mondo usa whatsapp.

Liberali conservative 

La specie più bizzarra, liberali fino a che non si toccano certi temi, quelli etici e sociali in particolare, perché in quel caso si trasformano in quaccheri della Pennsylvania. Le libertà individuali un tanto al kilo perché la famiglia tradizionale, i figli, il proibizionismo sono dogmi intangibili.

Liberali intransigenti

O libertari minarchisti. Per loro non è liberale niente altro che non sia fatto al grido di battaglia di "StatoLadro". L'autorità antitrust? Un pericoloso coacervo di malfattori comunisti. I monopoli? Il giusto premio al più forte in ragione del laissez faire. Gli ordinamenti dello Stato? Un attentato alla libertà dell'individuo. Il guaio più grande di questa categoria è che sono terribilmente aggressivi con chi la pensa un poco ma non completamente come loro e altrettanto accondiscendenti con chi li blandisce firmando inutili pledge per la riduzione delle tasse.

Questo più o meno il quadro dell'area liberale che mai si unisce. Se il quadro è realistico ben si comprende quali sono le ragioni della divisione e del perché ogni tentativo in tal senso sia fallito o in sede di elaborazione di un progetto comune o nelle urne.

E qui si pone un altro problema che mi piacerebbe fosse affrontato in una serena discussione quale quella denominata Liberal Camp. Gli italiani sono pronti ad accettare una visione autenticamente liberale della società?
L'amico Fabio Scacciavillani, sempre arguto e tranchant, ha scritto:
"gli italiani sono contro gli sprechi di denaro pubblico solo fino a quando non riescono ad accomodarsi anche loro alla tavola."
In altre parole essere liberali significa accettare e sentir propri principi come competizione e responsabilità individuale ma questi principi non fanno esattamente parte della cultura italiana, cresciuta nei decenni con il mito delle relazioni potenti che tutto aggiustano e che, alla fine, una prebenda, un appalto, una pensione, un posto di lavoro, te li fanno sempre arrivare.

Per contare qualcosa e provare a mettere in ordine un Paese come l'Italia occorre che chi ha idee superi le proprie barriere mentali e abbia il coraggio di essere pragmatico, non ideologico. Soprattutto sappia dare a quelli a cui intende rivolgersi la sensazione che è chiaro l'obiettivo da raggiungere, i mezzi utilizzati e gli attori di una rivoluzione, ché da noi davvero di rivoluzione si tratta, troppe volte annunciata e mai partita.

mercoledì 11 febbraio 2015

Riflessioni su Italia Unica, a due settimane dalla nascita

Il giorno 31 gennaio Italia Unica si è fondata, come partito, in quel di Roma. Proviamo a dire un paio di cose per aprire - almeno speriamo: la speranza è l'ultima a morire - un dibattito pubblico.

Non nasce sotto una coincidenza temporale favorevole Italia Unica. Il destino (o il pianificatore disattento?) ha voluto che nello stesso giorno in cui assumeva la forma di partito e si dava un gruppo dirigente l’attenzione di tutti i media fosse focalizzata sull’elezione di Sergio Mattarella al Quirinale. È accaduto così che, quasi incidentalmente, la politica del palazzo abbia eclissato ancora una volta quella che cerca di farsi sentire da fuori del medesimo.