martedì 14 aprile 2015

Della corruzione e delle pene

Secondo uno studio OCSE la percezione della corruzione nella pubblica amministrazione in Italia raggiunge il 90%. In questa speciale, e poco onorevole, classifica siamo primi davanti a Grecia e Portogallo e lontanissimi dai Paesi più virtuosi come Svezia e Danimarca. Insomma, non è vero che non sappiamo fare nulla, vi sono cose nelle quali ci impegnamo per davvero.
Che il Belpaese sia maglia rosa di questa bizzarra consuetudine lo si capisce sfogliando un qualunque quotidiano sia nazionale che locale anche senza ricorrere a complicati algoritmi statistici.
Sono passati 23 anni dallo scoppio di tangentopoli ma l’impressione è che da Mario Chiesa a Ercole Incalza nulla sia cambiato nonostante una legge ad hoc sui pubblici appalti (la 109/1994), decaloghi e raccomandazioni sia italiani che esteri, e un’authority nuova di zecca il cui funzionamento è stato su queste pagine da Paolo Piergentili.
Perché in Italia ogni appalto pubblico, ogni opera grande o piccola, ogni evento finanziato dalla tassazione di (quasi) tutti diventa ghiotta occasione per arricchire i già rigonfi portafogli dei soliti noti? Dal Mose all’Expo, dal G8 alla cooperazione, e via via a scendere in ambito locale, non c’è appalto che non sia sfiorato da fenomeni di corruzione e concussione.
Il legislatore reagisce come suo solito - ma sarebbe meglio dire fa finta di reagire - discutendo una nuova legge anticorruzione che inasprisce le pene e allunga i tempi di prescrizione dei reati. Se valesse la regola per cui basta aumentare di due anni la pena – nella fattispecie, da quattro a sei – per evitare la commissione di un reato, allora si potrebbe scrivere un nuovo codice penale che innalza tutte le pene di N anni. Fatto è che il puro inasprimento delle pene può essere funzionale, ma non decisivo, ad una effettiva risoluzione del problema. Se fosse vero l'assunto per cui una pena molto severa ha totale efficacia deterrente contro un crimine, allora in Texas, dove viene applicata alacremente la pena di morte, non avverrebbero più omicidi.
Il problema evidentemente sta (anche) altrove. 
Primo. In Italia non è mai esistito un sistema politico-elettorale capace di generare una vera alternanza nel controllo dei centri di potere, alternanza che implicasse un regolare ricambio sia della classe politica che dell'alta burocrazia pubblica. Anche i nuovi attori di oggi non sono altro che l’espressione dei vecchi sistemi di potere che perpetuano le loro dinamiche. Lo si vede nella timidezza con cui il governo, al di là dei proclami che non costano nulla e fanno sempre audience, affronta, nei fatti, il tema del ricambio della classe politica e di quella burocratica - un esempio su mille: Renzi che "blinda" De Gennaro. Lo si vede nei comportamenti dei parlamentari di Forza Italia, partito che più ha governato negli ultimi 20 anni: il gruppo parlamentare, come in un "pronti, via!" ha opposto con un emendamento la pregiudiziale di incostituzionalità al DDL in discussione al Senato. Lo si vede, alla fine, nella continuità nelle cariche apicali della pubblica amministrazione locale e dei ministeri.
Secondo. Nonostante il codice appalti esistono ancora troppe stazioni appaltanti che hanno il potere di dettare regole ad usum di chi con la PA ha un rapporto quotidiano e confidenziale. Alberto Heimler in un intervento alla Scuola Nazionale Superiore dell’Amministrazione così descrive il fenomeno:
i) I mercati degli appalti pubblici sono frequentemente caratterizzati da cartelli
ii) I concorrenti si mettono d’accordo per suddividersi fra loro le gare e aggiudicarsele ad un prezzo più elevato
iii) L’accordo si risolve (quasi) sempre in una rotazione su chi si aggiudica la gara di turno
iv) Talvolta i concorrenti si accordano per non partecipare ad una gara in cambio di un subappalto
È evidente che chi può riesce ad aggirare le regole, spesso grazie alla collaborazione di chi, nell’ente appaltante, dovrebbe garantire il regolare funzionamento della gara e il miglior prezzo e le migliori condizioni per la pubblica amministrazione.
Ah, a proposito di "insiders", l'ironia della sorte, nel cercare materiale per questo post, ci ha portato qui. Non male come esempio di scuola, no? 
Terzo. La cultura di cui è permeato il paese tratta la corruzione e la collusione con indulgenza perché rappresenta per tanti la scorciatoia segreta attraverso la quale si aggira la competizione e si evita l’investimento in produttività ed efficienza. Funziona meglio il capitalismo di relazione che il capitalismo di competizione, almeno in un sistema come quello italiano; il problema è che funziona per pochi e sempre i soliti. Paga esser vicini al politico potente che può garantire corsie preferenziali negli appalti, ma anche nell’accesso al credito, nelle assunzioni, negli incarichi di consulenza ecc.
Dunque non può essere una legge o una singola norma a "moralizzare" un insieme di interessi ben saldi e consolidati.
Serve un corpo di leggi quadro che di concerto operi su quattro grandi capitoli: a) semplificazione delle procedure, perché dietro la complessità delle norme si nasconde sempre il vantaggio di chi quelle norme sa come interpretarle e utilizzarle; b) piena e totale trasparenza sui criteri di aggiudicazione delle gare e sulle procedure di affidamento degli incarichi, perché i fenomeni corruttivi (e concussivi) non possono essere combattuti solo ex post ma soprattutto evitati ex ante; c) un'authority dotata di pieni poteri che garantisca meritocrazia ed esercizio della libera concorrenza fra imprese, che sia finalmente sopra le autorità speciali dei ministeri, come ad esempio la Struttura Tecnica di Missione affidata ad Ercole Incalza prima come dirigente poi come consulente esterno; d) incarichi a tempo determinato delle posizioni apicali a nomina politica della pubblica amministrazione per evitare che si consolidino rapporti troppo stretti fra chi detiene il potere di orientare gli appalti e chi partecipa alle gare. 
Non è un caso se la legge 109/93, prima, e il codice appalti (dlgs. 163/2006), poi, si siano rivelati inefficaci nella prevenzione della corruzione. E non è un caso se le cosidette grandi opere siano state quasi sempre affidate a commissari speciali dopo che erano stati scoperti gravi episodi di corruzione. Poco o nulla si è fatto in questi 20 anni sul fronte della trasparenza, vero nodo gordiano del problema. Manca un open data set che consenta a chiunque di consultare come e a chi i bandi sono assegnati, quali soggetti prestano le controgaranzie richieste dai disciplinari e altre cruciali informazioni. Un portale in cui tutti i record relativi alle assegnazioni siano di pubblica consultazione. Sarebbe questo un deterrente molto più efficace degli aumenti di pena e dell'allungamento dei tempi di prescrizione.
L'istituzione del Consip è stata un passo avanti non sufficiente su cui torneremo in un prossimo pezzo. Trasparenza serve sui bilanci dei partiti, sulle donazioni ricevute dai politici e dalle fondazioni da loro fondate o a loro riconducibili.
D'altra parte le disposizioni emanate dall'Anac per prevenire fenomeni di corruzione sembrano destare poco interesse fra i destinatari. Entro il 31 gennaio 2014 tutte le amministrazioni comunali dovevano presentare un piano triennale di prevenzione della corruzione (PTPC) e darne attuazione. I dati puntuali relativi all'attuazione dei PTPC si possono consultare in questa pagina curata da Franco Mostacci. L'interesse mostrato dalle amministrazioni locali si evince dal dato desolante relativo al divieto di presenza di condannati nelle commissioni e negli uffici: solo in sette comuni è stata fatta un'attività di verifica di questa condizione. In generale sembra esserci un imbarazzante scollamento fra percezione della corruzione e cronaca quotidiana da una parte e reazione delle amministrazioni pubbliche dall'altra. 
Emblematico è il caso del responsabile della trasparenza e della prevenzione della corruzione al comune di Roma, Italo Walter Politano, indagato per associazione a delinquere di stampo mafioso. Dopo il provvedimento di garanzia la giunta Marino l'ha sostituito ma non ha potuto sospenderlo fino a chiarimento della sua posizione, perché la legge non consente la sospensione di un dirigente. Politano oggi è a capo dell'Ufficio Decentramento. È dunque la legge stessa ad impedire che un (presunto) lupo sia a guardia del gregge.  
I partiti invece preferiscono spostare pilatescamente il dibattito sulle tecnicalità giuridiche e sull'uso delle intercettazioni.
I politici di destra senza alcun ritegno, quelli di sinistra più sommessamente (fa eccezione D' Alema), si lamentano della pubblicazione delle intercettazioni; in alcuni casi addirittura dello strumento stesso dell'intercettazione. Essere coinvolti, loro malgrado, mentre qualcuno suggerisce di acquistare 2000 bottiglie di Pinot e Cabernet perché chi lo produce è politicamente più influente di una Cantina Bentivoglio qualsiasi, può essere spiacevole; ma un politico senza macchia dovrebbe limitarsi a rivendicare la qualità del proprio vino, non minacciare di querela chiunque capiti a tiro. Anzi dovrebbe essere il primo a chiedere trasparenza, dopo che, svariati lustri ai vertici della politica italiana, per la trasparenza ha fatto nulla. È bene ricordare che, salvo rarissimi casi, le intercettazioni finiscono sui giornali perché sono già diventate atti pubblici e quindi la loro pubblicazione non solo non viola alcuna norma ma nemmeno alcuna segretezza. La secretazione di rapporti men che limpidi non è meno indesiderabile della gogna pubblica che deriva dalla pubblicazione di conversazioni riservate: dipende dal valore relativo che uno pone su moralità della vita pubblica e privacy del politico o del burocrate. Personalmente privilegio la prima, visto che il costo sociale della sua continua violazione è diventato enorme. Chi occupa ruoli di responsabilità politica e amministrativa non può invocare ragioni di privacy se lo scudo della riservatezza può nascondere illeciti comportamenti. Il diritto dei cittadini di sapere da chi sono governati è sacrosanto al pari della democrazia; anzi ne è parte fondante.
La corruzione non è solo un danno d'immagine per il paese. Calcolarne l'impatto sui conti pubblici è pressoché impossibile, anche se in giro qualcuno che abbia provato a fare i conti si trova. Le stime più a la page parlano di sessanta miliardi all'anno sebbene la stessa Corte dei Conti, cui si attribuisce la cifra, abbia dichiarato che non è possibile una quantificazione puntuale. È certo però che il danno c'è ed è enorme perché, oltre a rimetterci contabilmente, la PA ci rimette in efficienza e il paese ci rimette sotto il profilo della crescita della ricchezza. Si pensi solo a quante aziende straniere non investono in Italia per non trovarsi invischiate in meccanismi da terzo mondo; si pensi a quanti operatori italiani non investono perché fuori dal "giro giusto"; si pensi a quante aziende continuano a preferire di essere sottodimensionate pur di non rischiare che gli investimenti fatti per diventare competitive siano vanificati da un sistema in cui non si "deve" competere.
Mentre scriviamo queste righe il manager della Cpl Concordia Francesco Simone arrestato nell'inchiesta di Ischia, svela come funzionava il giro di mazzette che consentiva alla cooperativa di aggiudicarsi gli appalti. Ieri il Pio Albergo Trivulzio e il partito socialista; oggi una cooperativa e un giro di sindaci e senatori. Ventitre anni e non è cambiato niente.

sabato 11 aprile 2015

La matematica creativa di Renzi - Parte 1

Pubblicato il DEF 2015 mi accingo ancora una volta al sacrificio. Ammetto di partire prevenuto; tutti i precedenti documenti di economia e finanza contenevano numeri e previsioni buoni per i libri di favole e non per avere un segnale puntuale per lo stato dell'economia. Naturalmente gli ultimi due made in Renzi (Def 2014 e aggiornamento) non facevano eccezione, avendo Matteo da Rignano fatto dell'ottimismo creativo un spot permanente più ripetitivo di quello di Tonino Guerra.


Parto dunque dall'introduzione che al solito è col botto:

  • 1,6 miliardi di tesoretto, di cui decidere la destinazione in un imminente consiglio dei ministri (le elezioni si avvicinano e bisogna pur dare uno zuccherino agli elettori);
  • la clausola di salvaguardia dell'aumento IVA scongiurato
Il miliarduccio e spiccioli di maggiore dotazione deriverebbe dalle migliorate previsioni di crescita passate allo 0,7%. E' una previsione naturalmente ma i soldi per Renzi sono lì, tutti da spendere. E' come se in una sala scommesse il banco pagasse le vincite prima che sia finita la partita. 
Invece prudenza e raziocinio suggerirebbero di verificare il risultato finale prima di elargire premi. Questa fretta sembra la stessa che attanagliò il governo un anno fa quando gli 80 euro erano necessari ed urgenti.

Staremo a vedere

L'aumento dell'IVA è scongiurato, leggiamo, "grazie al miglioramento del quadro macroeconomico -che si riflette in un aumento del gettito - e alla flessione della spesa per interessi rispetto alle previsioni dello scorso autunno". 
Nulla la dire sul secondo punto perché grazie al QE i titoli pubblici di nuova emissione si sono effettivamente ridotti significativamente sino quasi a sfiorare i rendimenti negativi su quelli a breve (0,013% quello dei Bot a 12 mesi).
Sulle previsioni di gettito invece l'ottimismo del governo è all'ingrosso.
Sul sito del Ministero dell'Economia infatti si può leggere che nel bimestre gennaio-febbraio le entrate tributarie sono in calo dello 0,8% rispetto allo stesso periodo dello scorso anno. Aumentano quelle da imposte dirette (+1,9%) ma diminuiscono del 4,7% quelle da imposte indirette con un decremento del gettito IVA del 5,6%.

Insomma l'economia è tutt'altro che in salute, in special modo con riguardo ai consumi (-5% gli scambi interni) e alle accise sui prodotti energetici (indicatore importantissimo che cala addirittura del 9,3%).

E' presto per trarre delle conclusioni; magari nei prossimi mesi ci sarà un miglioramento del quadro economico. 
Per adesso rileviamo solo che l'ottimismo sembra il profumo della vita ma in realtà, in politica, è una flatulenza.