“Diventeremo l’Eurabia, in nemico è in casa nostra e non
vuole dialogare”, queste le parole forse più forti pronunciate da Oriana Fallaci
all’indomani degli attentati dell’11 settembre. Il termine Eurabia fu coniato
dalla scrittrice ebraica Bat Ye’or che ipotizzava un’alleanza euro-araba contro
Israele. Cardini di questo pensiero erano
a) l’atteggiamento più
o meno palese filo arabo di molti stati europei nella questione palestinese
b) la costruzione di una politica degli esteri europea
(essenzialmente condotta dalla Francia) in contrapposizione con quella degli
Stati Uniti, storicamente schierati al fianco di Israele
c) le curve demografiche specularmente opposte di europei e
musulmani (è interessante che questo elemento venga ripreso da alcuni Imam
radicali, i quali ricordano che un musulmano può avere fino a 4 mogli e il
tasso di natalità europeo è poco sopra 1).
Dunque nell’accezione originale il pericolo di una
islamizzazione dell’Europa era decisamente riferito alla questione palestinese.
La versione fornita dalla Fallaci invece, pur riprendendo alcuni di quei temi, (debolezza
europea e anche americana di fronte alla minaccia islamica), ipotizzava una
colonizzazione progressiva dell’occidente attraverso flussi migratori di
popolazioni arabe e africane verso l’Europa.
L’offensiva dell’Isis sul territorio europeo con gli
attentati di Parigi e le minacce alle altre capitali europee rappresenta l’attuazione
di questo piano di invasione?
La propaganda sciacallesca di Salvini e di porzioni di
centrodestra italiano e non vorrebbero farlo credere, ma un’analisi più attenta
porta ad altre conclusioni.
Il califfato di Al Baghdadi si è subito differenziato
nettamente rispetto ad Al Qaeda, di cui è una sorta di versione 2.0. Il limite
dell’organizzazione di Bin Laden e Zawahiri era la non territorialità. Al Qaeda
era un’organizzazione terroristica diffusa, organizzata in bande locali senza
un territorio di riferimento. Le cellule qaediste agivano contro un nemico
comune, l’Occidente, ovunque ne avessero la possibilità ma le loro azioni non
avevano uno scopo più complesso. L’Isis invece si è posto subito l’obiettivo di
organizzarsi in forma di stato, con un territorio definito, una propria
organizzazione burocratica, con proprie attività commerciali e persino con la
riscossione di tasse. La principale attività non è quella di seminare il
terrore a Parigi piuttosto che a Roma, bensì quella di conquistare territori
ricchi di materie prime e di petrolio e sfruttarne le potenzialità economiche. Gli introiti del califfato sono molteplici,
esattamente come per ogni organizzazione statale o parastatale, e vanno dal commercio
(in nero) di petrolio al merchandising, da quello di opere d’arte ai dazi. In
più ci sono tutte le attività tipiche di un’organizzazione criminale come il
saccheggio delle banche e i riscatti per rapimenti. Insomma è molto più di un’organizzazione
di fanatici. E’stato calcolato che il patrimonio accumulato ammonta a 2
miliardi di dollari e gli introiti da vendita di petrolio a circa 3 milioni di dollari al giorno.
Altro discorso meritano i finanziamenti ricevuti dal
califfato. Il Washington Post ha condotto un’inchiesta un'inchiesta dalla quale emerge che questi finanziamenti arrivano prevalentemente da Arabia,
Kuwait e Qatar attraverso donazioni private.
Il Califfato occupa stabilmente 3 territori, le
province di Raqqa in Siria, di Mosul in Iraq e di Sirte in Libia. Elemento
comune è l’instabilità politica di quei Paesi nei quali è facile con armi e determinazione conquistare spazi.
Sfruttando dunque le tensioni
geopolitiche, e gli interventi maldestri dell’Occidente, organizzazioni
criminali mediamente organizzate possono prendere il controllo di aree intere
del medio oriente; una lezione di cui tener conto e probabilmente è uno dei
motivi per cui le truppe americane durante la prima guerra del golfo si fermarono
a pochi chilometri da Bagdad, lasciando al suo posto Saddam.
Le principali e più cruente azioni terroristiche non sono
state rivolte verso l’Europa ma contro le enclave curde e yazide e verso gli sciiti, contro i quali i musulmani
di confessione sunnita conducono una battaglia secolare. I 129 morti di Parigi
fanno inorridire ma l’elenco delle azioni riconducibili all’Is è ben lungo.
Gli uomini del califfato hanno colpito in Arabia Saudita sia
nella zona di Ihssa a maggioranza sciita che a Saihat (37 morti), nel Kuwait (27
morti), Tunisia (39 morti a cui si aggiungono le 22 vittime del museo del Bardo),
Yemen (25 morti), Turchia (158 morti), Libano (43 morti), Egitto (4 morti) ,
Afganistan (35 morti). Poi ci sono le centinaia di vittime e deportati di
Kobane, Mosul (670 sciiti fucilati), Beshir (700 morti), Kocho (80 vittime). La
triste contabilità delle atrocità commesse dall’Isis è difficilissima ma indica
abbastanza chiaramente che la maggior parte delle azioni sono state condotte
fuori dall’Europa e non contro cittadini occidentali.
Questo significa che il pericolo è sovrastimato? Certamente
no. Può significare però che gli attentati contro gli occidentali siano più
riconducibili ad una forma di propaganda che non ad una reale intenzione di
conquistare il vecchio continente e abbattere il “diavolo” occidentale. Da
quando è stato costituito il califfato, sono oltre 3000 i foreign fighters di
provenienza europea che sono andati ad affiancarsi ai 30.000 (erano 15.000 nel
2014 secondo Foreign Policy) miliziani dell’Isis impegnati nelle campagne
militari in Siria e Iraq. Si tratta per lo più di giovani di origine araba e
magrebina, europei di seconda e terza generazione, esattamente come gli
attentatori di Parigi. Tutto sommato numericamente poco significativa invece la
conversione di occidentali. In altre parole la retorica dell’attacco allo stile
di vita decadente e peccaminoso dei miscredenti cristiani appare più come una
ben congegnata operazione di marketing volta al reclutamento di giovani
arrabbiati, che non come una via per la conquista del vecchio continente. In
fondo, ricordiamolo, terzomondisti e critici della cosiddetta società in mano alle
multinazionali ce ne sono anche fra noi europei; talvolta anche in parlamento.
La stessa ricostituzione del califfato e l’autoproclamazione di unico califfo
di tutti i musulmani sta ad indicare abbastanza chiaramente che l’obiettivo di
Al Baghdadi è il controllo del mondo islamico e non di quello cristiano.
Pur contando su una organizzazione militare rigida e ben
strutturata, pur considerando che all’interno delle aree fra Iraq e Siria sotto
il controllo dell’Is vivono 6 milioni di abitanti, pur ammettendo che è di gran
lunga il più ricco gruppo terroristico del mondo, è ben difficile che una
entità tutto sommato piccola possa rappresentare una reale minaccia per un’organizzazione
sovranzionale di 300 milioni di abitanti e ancor di più per gli USA o la
Russia. Se non intervenissero altri e più complessi ragionamenti sarebbe
abbastanza facile spazzare via lo Stato islamico dell’Iraq e della Siria. Come
accennavamo sopra gli interventi militari degli ultimi 30 anni hanno dimostrato
che abbattere una dittatura in quella regione porta più incognite che certezze.
Significa i) dare il via ad una guerra per bande per il controllo di porzioni
di territorio ii) dare impulso al sentimento antiamericano e antioccidentale,
considerati come invasori, sfruttatori e
miscredenti iii) favorire il finanziamento occulto da parte di clan (le
famiglie wahabite del Qatar ad esempio) a questa o quella organizzazione di ribelli in funzione di
combattere nemici storici. Se si vuole dunque annientare il Daesh è opportuno
fare in modo che l’accerchiamento sia completo e della coalizione facciano
parte anche quegli stati il cui atteggiamento è quantomeno equivoco. Un ruolo
importante ce l’ha l’Iran, bersaglio di Al Baghdadi in quanto Paese sciita, ma
un ruolo altrettanto importante devono averlo i Paesi arabi e l’Egitto. Gli
attentati del 13 novembre e quello quasi contemporaneo all’aereo di linea russo
hanno avvicinato Hollande e Putin, ammorbidendo anche l’intransigenza di Obama
rispetto alle mira russe nell’area. La Turchia, interessata da fenomenii
migratori molto più imponenti di quelli affrontati dall’Europa, ha aperto ad un
possibile suo intervento più coordinato e sistematico. Resta da vedere che
atteggiamento assumeranno i sauditi.
Vi sono altre 2 considerazioni da fare.
L’imponente flusso migratorio in atto da mesi dalle coste
dell’Africa verso Italia e Grecia e via terra dalla Siria attraverso la Turchia
e l’Europa orientale, poco ha a che fare con la minaccia terroristica. E’
ingenuo, oltre che fuorviante, pensare che un siriano che voglia farsi
esplodere in una discoteca di Parigi rischi la vita su un scalcagnato barcone per
raggiungere le coste europee. Le rotte dei terroristi seguono altri percorsi oppure,
come abbiamo visto, perseguono la strada dell’indottrinamento di chi sul
territorio europeo già ci vive. Allo scopo Al Qaeda prima e l’Isis ora hanno
utilizzato tanto le moschee quanto internet.
Per chi è indottrinato in base alle più estremistiche
interpretazioni del Corano, la morte non è una minaccia ma un premio.
Combattere e morire in una guerra contro chi è considerato infedele è una
ricompensa. Questo comporta che annunciare il pugno duro senza che ad esso
corrisponda un’azione determinata non ottiene nessun effetto. Fanno sorridere
quelli che predicano il dialogo con queste organizzazioni e, più o meno
intenzionalmente, ne giustificano gli atti come risposta agli abusi degli
occidentali. Non ci può essere dialogo con chi non ha nessuna intenzione di
dialogare. In questo, e solo in questo, la Fallaci aveva ragione.
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