venerdì 24 giugno 2016

Panic on the streets of London

Prima di tutto i numeri. Per il Leave si sono pronunciati gli elettori delle province dell'Inghilterra mentre nelle principali città (la City su tutte) c'è stata un successo, talvolta largo del Remain.




A favore dell'Unione Europea si sono pronunciati in Scozia, in Irlanda del Nord (specie nelle contee a sud) e a Gibilterra; a favore del Leave in Galles (di poco). Significativo il voto scozzese, dove le pulsioni al distacco dall'Inghilterra sono secolari e ancora molto vive.

A favore del Remain le classi di età più giovani e più scolarizzate. Fin qui quello che tutti possono osservare.

Prima della consultazione di ieri l'economia inglese era la più in salute fra quelle dei grandi Paesi europei. L'unico dato in controtendenza era quello relativo al deficit, ma Cameron aveva avviato politiche di contenimento della spesa e il deficit era sceso di oltre 1 punto al 4,4% nel 2015.



E' generalmente accettato che i timori inglesi rispetto all'Unione Europea riguardano le politiche sull'immigrazione. Negli ultimi 3 anni è raddoppiato il numero dei residenti non english nelle principali città britanniche. La perdita di identità e la nostalgia per i tempi dell'impero sono state leve cavalcate dai favorevoli al Leave.



La scommessa di Cameron è andata male e il premier ha già annunciato le dimissioni, in linea con quanto aveva promesso, e che a condurre i lunghi negoziati che ora cominceranno sarà il suo successore a partire da ottobre. Una prima differenza rispetto alle consuetudini italiane si può cogliere: quando un leader inglese vuole rafforzare la propria posizione politica, convoca una consultazione popolare, con tutti i rischi che questo comporta. In Italia invece il voto viene considerato asincrono rispetto alle grandi scelte.

Sulle conseguenze economiche del Leave vedremo cosa accadrà. E' certo un lungo periodo di incertezza sui mercati, maggiore in queste prime ore a quanto successe all'indomani del fallimento di LM.
Molto dipenderà da come e in che tempi verranno condotti i negoziati previsti dall'articolo 50 del Trattato di Lisbona. La clausola di recesso unilaterale non è di facilissima applicazione:

  1. Il Paese che intende recedere deve notificare la sua intenzione al Consiglio Europeo, il quale fa le sue valutazioni ed emana le linee guida per la exit.
  2. L'Unione Europea, sentito il parere del Parlamento, delibera l'uscita del Paese richiedente a maggioranza qualificata.
  3. Raggiunto l'accordo e ratificata la cessazione i trattati internazionali non si applicano più. Nella più sfavorevole delle ipotesi i trattati cessano di avere effetto dopo 2 anni dalla notifica.
A quel punto è probabile che cominceranno i negoziati per nuovi trattati commerciali e di collaborazione.

Come si vede l'elemento di maggior tensione è legato all'incertezza sui tempi di realizzazione della Brexit e sul riassetto conseguente dei mercati, laddove va considerato che Londra è la più importante piazza finanziaria del mondo.

Il costo di questa incertezza sarà in qualche modo pagato da tutti gli attori, britannici in primis, senza che nessuno possa ritenersi al sicuro.

Se, come credo, questa Europa non funziona come dovrebbe (e potrebbe), sarebbe stato preferibile avere un UK all'interno dell'Unione Europea in modo da fare da stimolo a favore di maggior concorrenza e mercato libero. L'isolamento al quale i british si sono condannati non aiuta né l'Europa,né il mercato né, tanto meno, i british stessi.

Infine, fanno ridere quegli italiani che a parole si dicono pro libero mercato e poi esultano per l'innalzamento di nuove barriere conseguenti alla necessità, non eludibile, di dover rimettere nelle mani della burocrazia la definizione di accordi che erano già acquisiti. Ma si sa, i sarchiaponi non smettono mai di rivelarsi per ciò che sono. 

lunedì 9 maggio 2016

L''amore Vero Sa Aspettare

Abbandono per un po' i soliti post di economia e politica per fare un'incursione nel mondo della musica in occasione dell'"Evento Radiohead"dell'8 maggio.

Cinque anni abbiamo aspettato il nuovo lavoro dei RH, attesa appena mitigata dalle tensioni elettroniche di Yorke, dai dj set, dall'esperienza Atoms For Peace e dal download Torrent di Tomorrow's Modern Boxes.

La prima cosa che mi viene in mente è che, sebbene abbia amato i lavori di Thom, sentivo la mancanza di Jonny Greenwood e della sua genialità negli arrangiamenti; e se l'ultima volta avevo impiegato quasi un anno a metabolizzare The King Of Limbs, questa volta sono bastati 2 ascolti per restare sopraffatto da A Moon Shaped Pool.

I RH possono piacere o meno, hanno tanti fan quanto detrattori i quali rimproverano alla band di Oxford la solita storia di essere degli sfigati noiosi e stranianti, la voce di Thom dolente e lamentosa.
Quello che non è possibile non ammettere è che "the band who played creep", è lontana anni luce dal britpop postpunk che li ha generati e rappresenta, forse, la frontiera più avanzata della sperimentazione musicale. Ogni volta hanno saputo reinventare i loro suoni rimanendo sé stessi, marchiando a fuoco ogni fatica con il sound Radiohead. E' una specie di miracolo se si pensa che i 23 anni che separano AMSP da Pablo Honey ne fanno una delle band più longeve della scena inglese.

Quest'ultimo lavoro è semplicemente sublime, costruito con una ricchezza di sfumature di colori senza eguali che restituiscono il wall of sound persino nelle partiture più minimal. Così è in Identikit, Decks Dark, Ful Stop e in quella Present Tense già ascoltata decine di volte live, che qui prende le forme e il mood di un pezzo latineggiante.

Come sempre avvenuto in passato, cambierò di continuo il pezzo preferito perché ogni ascolto sarà la scoperta di nuovi particolari e di arrangiamenti "nascosti".
Una menzione speciale però deve andare a True Love Waits. Fu suonata la prima volta nel lontanissimo 1995, facendo parte delle session di The Bends, il loro secondo album.
Per quelle misteriose ragioni che solo Thom & Co. conoscono, non ha mai trovato spazio in un lavoro in studio. Forse colpa dell'iperperfezionismo che li porta sovente a riarrangiare continuamente un brano fino a che non suoni come sentono debba fare. Fatto è che trovarla qui, in questo mix straordinariamente assortito di arrangiamenti geniali, testi cupi e soavi allo stesso tempo, di beat ossessivi e di chitarre perdute (in alcuni passaggi addirittura glitter) mi fa dire che non solo l'amore vero sa aspettare, ma anche che alla fine arriva e travolge; dopo 5 anni.


 

sabato 13 febbraio 2016

Quell’aumento dell’iva di cui nessuno per ora parla

In questi giorni è partita la campagna pubblicitaria del governo che illustra i mirabolanti risultati ottenuti da Renzi in due anni.  Gli spot, si sa, non sono mai esempio di equilibrio e imparzialità giacché persino gli attori che addentano avidi succulente merendine in realtà masticano finto cibo neanche commestibile che sputeranno a videocamere spente. Tuttavia nelle slide governative c’è del vero, del falso e qualche mistificante omissione.
E’ su queste omissioni che voglio concentrami perché se il recente passato descritto dal governo appare roseo (e non lo è) sul futuro si addensano nubi minacciose. 

Le rilevazioni Istat dell’ultimo trimestre 2015 hanno restituito un rallentamento della crescita, marcato da una contrazione della domanda nazionale con un dato congiunturale dello 0,6% lontano dallo 0,8% preventivato dal governo. Padoan e tutto il pd hanno replicato con un’alzata di spalle sottolineando che “l’importante è la direzione”, ovvero il segno + davanti allo 0. Se tanto mi dà tanto anche uno 0,1% sarebbe gradito dato che l’importante è il segno positivo. 
Mancanza di argomenti e un po’ di serpeggiante timore che il banco salti secondo me, di cui è testimonianza anche il riscaldamento dei toni usati da Renzi contro la Commissione europea.

Sin qui il PIL italiano ha beneficiato di almeno 4 fattori esogeni:
  1.      La discesa dei prezzi delle materie prime
  2.      Il ciclo economico in ripresa
  3.      Le manovre monetarie pro cicliche della BCE
  4.     La riduzione degli spread, e degli interessi sul debito, grazie al firewall attuato e promesso da   Draghi.

L’impatto delle riforme è ancora troppo poco significativo e gli altalenanti dati su occupati e disoccupati dopo Jobs Act e decontribuzione sono lì a sostanziarlo.
Dunque se crescita c’è stata è dovuta non ad un miglioramento delle condizioni economiche interne, bensì a fattori esterni. Se, come sembra, le stime del governo si riveleranno troppo ottimistiche, per far quadrare i conti si imporranno  ai cittadini amare sorprese.

La legge di stabilità 2015 si reggeva su una scommessa: che il miglioramento del dato sul prodotto interno lordo avrebbe consentito l’aggiustamento del bilancio pubblico e  l’avvicinamento all’Obiettivo di Medio Termine; ad assicurare questo risultato erano state inserite clausole di salvaguardia automatiche che prevedevano aumento dell’iva e delle accise. Solo grazie ad esse la legge di stabilità passò il vaglio della Commissione. In nome dell’ottimismo (o dell’aritmetica elettorale) il governo ha poi messo in atto una politica espansiva a colpi di 80 euro e di bonus vari, alcuni bizzarri come quello cultura finanziato con la flessibilità concessa per l’emergenza immigrati, continuando a confidare nel miglioramento della congiuntura globale e rimandando al 2017 le clausole di salvaguardia.

Solo che non sempre le cose vanno come si spera e talvolta succede che l’economia cinese rallenti, quella di Russia e Brasile precipiti in recessione, che il prezzo del petrolio costantemente basso impoverisca i Paesi emergenti e che si comincino a sentire scricchiolii anche nelle economie, come quella tedesca, molto più solide della nostra (che infatti frenano anche loro ma meno di noi.
Salta il banco, addio flessibilità ed ottimismo e bagno nella realtà che poco somiglia la mondo dei sogni renziano.

Quelle clausole, valgono 26,2 miliardi di gettito aggiuntivo. Per poter rispettare gli impegni presi con la Commissione, il debito pubblico dovrebbe calare nel 2017 di 90 miliardi (in valori nominali) e il rapporto col PIL di quasi 6 punti percentuali. Dopo un breve periodo di calo invece, da agosto 2015 è ripreso a salire (fonte Banca d’Italia) e ha già raggiunto e superato i 2.212 miliardi previsti per fine esercizio 2017 dall’aggiornamento del DEF.
Il deficit strutturale secondo il governo sarebbe prossimo allo 0,3%, invece la Commissione  lo rileva all'1,4%. 
Se il forward looking della Commissione e quello più vicino alla realtà (voi fra Renzi e Juncker di chi vi fidate?) nulla lascia pensare che lo stato della finanza pubblica consenta di evitare manovre aggiuntive o che le clausole di salvaguardia si possano disinnescare anche per il 2017. 

Certo ci sarebbe il taglio della spesa pubblica, ma, come ha ben detto Marco Travaglio, questo governo si è dimostrato più abile a tagliare i commissari alla spending review che la spesa stessa.

Cosa significherebbe un aumento di 3 punti sull’iva? Sicuramente compressione ulteriore dei consumi, come sappiamo già molto deboli, e aumento della pressione fiscale. Significherebbe poi un’altra cosa: che la famigerata austerity non è determinata dagli euro burocrati di Bruxelles, i quali anzi da due anni a questa parte portano avanti moderate politiche espansive, ma dalla incapacità di Renzi di programmare politiche di bilancio sostenibili.

L’alternativa, qualche trucco contabile o un’altra procedura di infrazione di un’Europa che non si fida più delle parole del nostro premier.

Alla faccia di gufi, gufetti e altri animaletti dispettosi. 

sabato 30 gennaio 2016

Di crediti deteriorati e bad bank

Mi è stato chiesto di scrivere qualcosa di semplice e divulgativo sulla nuova crisi del sistema bancario. Con la vicenda delle quattro banche locali ristrutturate con il decreto di novembre, e il crollo dei prezzi di Mps in borsa, sembra che gli italiani abbiano scoperto che esistono crediti deteriorati, asset da svalutare e rischi dell'attività bancaria.
Nello specifico sull'argomento hanno già scritto Gabriella Chiesa qui Boldrin e Zanella qui  Massimo Famularo qui e Daniele Muritano qui. Si tratta quindi di una materia già ampiamente trattata (e ho citato solo quanto pubblicato su NfA) che dovrebbe essere oramai chiara e cercherò di non sovrappormi.
Ci sono però alcuni concetti base che non sembrano essere compresi dai più.

Prima di tutto un paio di considerazioni generali.
i) i crediti deteriorati rappresentano il rischio tipico dell'attività bancaria. Per contenerlo, agli istituti di credito è stato imposto dalla normativa di mettere in atto attività e procedure ispirati a criteri di oggettività limitando la discrezionalità nella valutazione del merito creditizio del soggetto da finanziare (sia esso azienda o persona). Quando qualcuno va in banca a chiedere per sé o per la sua impresa una linea di credito o un mutuo la prima procedura che viene attivata è la consultazione del rating, ovvero il punteggio che viene assegnato in base a storia bancaria, reddito, settore in cui si opera, circolante ecc. In linea di massima soggetti con rating compreso fra 1 e 4 accedono facilmente al credito, soggetti con rating fra 5 e 7 meritano una particolare attenzione sulla qualità della tipologia del credito richiesto, soggetti con rating >7 non sono di norma ritenuti finanziabili. La classificazione che ho riportato è volutamente grossolana per semplicità del discorso.
Naturalmente sottrarre alla discrezione la concessione del credito presenta vantaggi e svantaggi: il vantaggio è che il rischio di concederlo incautamente si abbatte; lo svantaggio è che start up costruite su proiezioni di redditività anche interessanti difficilmente saranno finanziate dal sistema bancario.
ii) gli impieghi della banca, sia sotto forma di credito di cassa che sotto forma di credito di firma, sono correlati negativamente con gli accantonamenti che devono essere fatti: migliore è il rating del soggetto finanziato e minore sarà l'accantonamento che deve essere messo a riserva per far fronte a situazioni di insolvenza. In altre parole avere in pancia crediti sicuri significa per la banca avere più soldi da prestare.

Se dunque esistono meccanismi oggettivi di contenimento del rischio perché quattro banche "falliscono" e Banca d'Italia ci fa sapere che le sofferenze lorde  del sistema sono a 200 miliardi (attenzione a non confonderle con quelle nette che corrispondono a meno della metà) e il valore delle stesse sugli attivi ha superato il 10%.

Perché il rischio tipico si può contenere ma non azzerare, perché la situazione finanziaria dei mutuatari può mutare nel tempo e perché le norme possono ancora essere aggirate a dispetto di Basilea e a favore di chi è amico (meglio se grande e ben ammanigliato). Un collega che opera nel settore bancario da qualche decennio dice sempre che "si fallisce per i crediti non per i debiti".

Posto dunque che i crediti deteriorati sono sistemici, cosa si può fare?

Da sempre, non da ora, esiste un mercato di cosiddetti Non Performing Loans, sia mobiliari che immobiliari. La risposta del mercato è quella di impacchettare un montante di NPL, venderlo a sconto in base a criteri di ponderazione e ipotesi di esigibilità a investitori qualificati e procedere col recupero o la negoziazione. Spannometricamente possiamo dire che un pacchetto composto bene vale fra il 10 e il 50% del credito sottostante. Un buon investimento di solito per chi lo acquista ma anche un buon affare per chi vende perché si libera di passività che appesantiscono il bilancio. La disciplina degli Special Purpose Vehicle (SPV) è normata dalla L.130/99 ed è armonizzata al Testo Unico Bancario.


Se il mercato c'è, perché può essere utile un intervento dello Stato? Nel caso delle 4 banche sottoposte ad amministrazione controllata a seguito delle ispezioni di banca d'Italia, il governo si è mosso favorendo la nascita di una Bad Bank, ovvero di un veicolo che assorbisse e trattasse crediti svalutati dell'83% . E' stata un'operazione nata con criteri di eccezionalità ed urgenza sulla quale sospendo il giudizio (comunque tendenzialmente negativo) perché finirei per analizzarlo sotto il profilo politico. 
Più in generale gli SPV funzionano bene anche in assenza di garanzia statale (per gli NPL immobiliari ci sono già le garanzia reali) purché a) il portafoglio crediti oggetto dell'operazione (secutization) sia acquisito a corretti valori di mercato, b) vengano rispettati  criteri di trasparenza nelle operazioni di negoziazione dei crediti cartolarizzati (cosa che non avvenne ad esempio nella grande crisi del 2007) c) il portafoglio sia sufficientemente ampio e in modo da diversificare il rischio. Lo Stato può quindi intervenire con proprie garanzie per favorire la circolazione del denaro nel sistema (un titolo garantito è più liquido di uno non liquido) ma può anche limitare il suo intervento a funzione di regolatore demandando alla Vigilanza il controllo sulla trasparenza delle operazioni e sulla composizione dei portafogli. In questo modo si eviterebbero anche il rischio di incorrere in procedure di infrazione per aiuti di Stato e in quello di scaricare sul bilancio pubblico, e quindi sui contribuenti, eventuali operazioni sbagliate.


sabato 12 dicembre 2015

Investitori subordinati

Mi è stato chiesto di esprimere un parere sulla vicenda che ha coinvolto i sottoscrittori delle obbligazioni subordinate emesse dalle 4 banche oggetto del decreto salvabanche, Banca dell'Etruria, Banca Marche, CariChieti e CariFerrara.

La vicenda è stata ampiamente trattata da tutte le testate giornalistiche, ora bene ora male, per cui non tornerò su argomenti già analizzati. Gli argomenti che sono implicati in questa orrifica storia sono molti per cui cercherò di procedere con ordine scusandomi in anticipo per la lunghezza dell'articolo.

Decreto d'urgenza e Bail in

Il consiglio dei ministri si è riunito con carattere d'urgenza domenica 22 novembre emanando un decreto che ha stabilito un doppio intervento che va nella direzione di salvare le quattro banche attraverso l'intervento del sistema creditizio e la creazione di una bad bank che dovrebbe gestire i (tanti) crediti deteriorati che avevano in pancia. Da un punto di vista politico-economico l'intenzione manifesta del governo è stata quella di salvaguardare posti di lavoro, istituti attivi sul territorio e tessuto economico. Contrariamente a quello che si pensa in generale, il salvataggio (3,6 miliardi) non incide sul bilancio pubblico perché è il sistema creditizio che si accolla la gran parte dell'intervento, con il solo paracadute (parziale) della Cassa Deposito e Prestiti i cui conti, come sappiamo, non incidono sul bilancio dello Stato. A dolersi dunque dovrebbero essere gli azionisti delle banche che impiegheranno i loro attivi nell'operazione e non i contribuenti preoccupati dalla fiscalità generale.

L'aspetto oscuro, sul quale qualcuno dovrebbe dare conto, è perché intervenire in questo modo a poco più di un mese dall'entrata in vigore della direttiva sul Bail In. Si possono fare molte speculazioni, compresa quella che riguarda gli interessi della famiglia Boschi in banca dell'Etruria, ma è un terreno scivoloso. Preferisco pensare che c'erano i tempi per intervenire alla vecchia maniera (Bail Out) e che ragioni di opportunità avrebbero fatto preferire una soluzione in linea con la normativa che sta per entrare in vigore.

Fra le due soluzioni quella preferibile è senza dubbio la seconda perché responsabilizza management e azionisti dell'Istituto di credito e perché può agevolare una selezione del mercato, il fly to quality, che spinga i depositanti ad utilizzare le banche che attuano una più prudente gestione del rischio. Ricordo che il deterioramento dei conti è nella fattispecie tutto imputabile ad una cattiva gestione degli impieghi con casi macroscopici che riguardano i crediti personali, di cassa e di firma, dei manager e di "quegli amici degli amici" a cui evidentemente non si applicano rigorosi criteri di selezione in base rating. In barba a tutte le direttive e normative emesse dagli organi di vigilanza.

Le obbligazioni subordinate


Ad essere gravemente colpiti sono piccoli risparmiatori trasformati in azionisti e detentori di subordinate dalle pratiche di vendita delle banche. Si è detto e sentito che le obbligazioni subordinate sono destinate ad investitori qualificati. Falso. Non esiste alcuna normativa che vieti ad un consulente o ad un altro intermediario finanziario l'indicazione o la vendita di obbligazioni junior, come invece previsto per quote di fondi hedge. Esiste, quello si, una indicazione emanata da Banca d'Italia, di concerto con la Consob, che raccomanda un rafforzamento dell'analisi dell'adeguatezza dello strumento finanziario rispetto al profilo di rischio del cliente. Oscar Giannino, unico, fa giustamente notare che gli effetti dell'entrata in vigore del Bail In erano stati previsti da BankIt in ordine al collocamento di subordinate; l'istituto di palazzo Koch faceva riferimento e ai rendimenti di questa tipologia di obbligazioni che dovevano incorporare un premio per il (maggior) rischio, e l'adeguamento dei questionari Mifid.


Ma perché gli Istituti di Credito collocano questo tipo di obbligazioni? Perché per effetto dei meccanismi contabili fare raccolta attraverso le subordinate equivale a fare raccolta di equity e quindi a rinforzare il capitale soggetto a vigilanza. In altre parole vendendo debito non privilegiato le banche scaricano sulla clientela il costo della ricapitalizzazione utile a superare gli stress test previsti dall'Eba. Superare gli stress test significa poter continuare ad erogare credito, quindi chi lancia anatemi (mi riferisco ai politici) contro le banche in generale dovrebbe quantomeno usare un po' di prudenza quando tratta con leggerezza argomenti così complessi. La stessa cosa, chi legge ricorderà, è avvenuta in occasione del famoso prestito all'1% concesso dalla Banca Centrale Europea al sistema bancario. Si lamentava demagogicamente che quei soldi non venivano impiegati nell'economia reale sotto forma di crediti alla piccola e media impresa; ma le banche non possono prestare denaro se non hanno capitale e riserve sufficienti e, soprattutto, non possono prestarlo senza che vengano rispettati parametri di sana e corretta valutazione del rischio. Insomma, non si possono pretendere prestiti facili e poi lamentare che le banche non abbiano conti sani. Sono due elementi complementari che fanno in modo che senza l'uno (i conti in ordine) non ci sia il resto (il finanziamento). In tutte le crisi bancarie la causa scatenante è sempre stata la concessione troppo semplice di finanziamenti; si pensi ad esempio alla crisi dei mutui subprime del 2007. 

L'adeguatezza Mifid


Quello Mifid è un complesso di norme e raccomandazioni entrato in vigore nel 2007 e successivamente implementato e corretto. La vigilanza Mifid spetta alla Consob che negli anni ha emanato chiarimenti che hanno ulteriormente ristretto i margini operativi per gli intermediari finanziari.

Come spesso accade l'eccesso normativo produce orrori. Nella fattispecie l'orrore è rappresentato da questionari lunghi (oltre 100 pagine), quesiti generici che coprono tutto lo scibile in campo finanziario e quesiti specifici che devono essere valutati e controfirmati anche da chi non è interessato ad investire su quello specifico strumento. L'effetto pratico di moduli troppo complessi o estesi è spesso quello di precompilare i questionari in funzione dello strumento che si sta proponendo o acquistando, così come l'effetto di un limite di velocità troppo basso rispetto alla caratteristica della strada induce a non rispettare la velocità massima prevista. Quando mi occupavo di investimenti ho visto pensionati con bassa scolarizzazione che da Mifid risultavano detentori di warrant e options solo per poter avere un profilo dinamico e quindi acquistare quote di fondi azionari. Una evidente contraddizione. La verifica della corretta profilatura del cliente spetta in prima battuta agli uffici stessi dell'intermediario che devono far corrispondere l'esito della query al prodotto offerto, consigliato o acquistato. Le verifiche dell'autorità di vigilanza arrivano ex post.

La vigilanza

La vigilanza sull'attività degli istituti di credito spetta alla Banca d'Italia per quanto riguarda i parametri di bilancio e i margini di garanzia, e alla Consob per quanto riguarda i prodotti finanziari collocati. Con questa vicenda si è aperta una profonda frattura fra Banca d'Italia (e Abi) e autorità europee. La feroce difesa dell'operato di via Nazionale mi appare francamente come una exusatio non petita perché se pure può essere vero che in sede europea BankIt aveva chiesto uno spostamento in avanti dell'entrata in vigore del Bail In, è altresì vero che al cambio di rotta si è arrivati gradualmente e gli effetti del Bail In non si applicano a questo caso. Altrettanto pelose appaiono le ragioni di chi ricorda che Germania, Spagna e Irlanda hanno utilizzato denari pubblici per salvare banche in default. Erano altri tempi, con altre normative e con un rischio che diventava sistemico e non legato a 4 istituti di dimensioni tutto sommato locali.
C'è da chiedersi piuttosto come mai attività ispettive cominciate nel 2012, rilevanti "ostacoli all'attività di vigilanza", non hanno determinato rigide attività di recupero dei crediti deteriorati e abbiano consentito che si continuassero a vendere azioni e obbligazioni di istituti dai conti traballanti. Si poteva e forse doveva evitare che nuove emissioni entrassero nei portafogli dei clienti. 
Le raccomandazioni Mifid in ordine ad adeguatezza e appropriatezza, conoscenza dei meccanismi finanziari e degli strumenti finanziari non bastano ad evitare tragedie come quella di Luigino D'angelo. Nello stesso tempo appare come una foglia di fico sostenere che il rendimento delle subordinate doveva rappresentare un campanello d'allarme per i sottoscrittori. Una persona con scarsa competenza finanziaria (ma anche con competenza media) non può valutare una cedola del 3,5% come premio per il rischio emittente con conseguente grave possibilità di non ottenere neanche il rimborso del capitale a scadenza del titolo; anche se i BTP pagano rendimenti di 2 o 3 volte inferiori.

Conflitto di interessi e finanza comportamentale

La normativa Mifid nasce con lo scopo principale di tutelare l'investitore. In ordine al conflitto d'interessi in cui si possono trovare gli intermediari, le prescrizioni, altrove troppo rigide, si limitano ad un dovere di informare il cliente che la società/banca si può trovare in posizione di conflitto d'interessi quando colloca una determinata tipologia di titoli. E' il caso, macroscopicamente evidente, della banca che vende azioni e obbligazioni proprie anche con lo scopo di riequilibrare i margini di solvibilità. Sul conflitto d'interesse il legislatore dovrebbe avere il coraggio di prendere provvedimenti più rigidi, ad esempio vietando la vendita da parte degli intermediari di strumenti finanziari di cui è anche emittente. Verrebbe meno, è vero, una forma di finanziamento, ma verrebbe meno la tentazione di vendere a tutti i costi prodotti che massimizzano il profitto a danno della libertà di scelta del cliente.
Nessuno lo ha detto o scritto, mi pare, ma un elemento fondamentale di questa brutta vicenda è la particolar situazione in cui si trova un risparmiatore di fronte ad una operazione di investimento. Anche il più prudente dei clienti retail si aspetta dall'impiego dei propri soldi un guadagno, il cosiddetto alpha. Solo gli istituzionali hanno la capacità di giudicare positiva un'operazione a somma zero o negativa (si veda il caso ad esempio delle ultime emissioni di BOT). Il cliente privato si aspetta sempre una remunerazione che, detratti i costi (tasse comprese). generi alpha. L'obbligazione è da sempre percepita come investimento "sicuro". Nel prospetto informativo c'è il valore delle cedole (garantite) e il valore del rimborso (100% della somma investita). I rischi, sistemico, specifico, di cambio ecc., sono trattati in altro capitolo del prospetto e riferiti alla totalità degli strumenti finanziari e delle operazioni di investimento. Fra la definizione (generica) di rischio e la convinzione (storica) di sicurezza dell'obbligazione a prevalere nella maggior parte dei casi è quest'ultima. Nonostante le esperienze Tango Bond, Parmalat, Cirio, Lehman Brothers.
Se poi ad offrire l'obbligazione bancaria è lo stesso gestore al quale si deve chiedere un fido, un anticipo fatture o semplicemente l'esecuzione di un versamento, la percezione del rischio connesso all'operazione di investimento passa facilmente in secondo piano rispetto alla consuetudine ad utilizzare quella banca. 
Nella mia quotidiana esperienza di consulenza finanziaria mi son trovato di fronte sempre funzionari di banca preparati e coscienziosi. I casi di vendita di prodotti non adeguati sono rarissimi. Il pericolo che si faccia di ogni erba un fascio è grande e ingiusto. Per questo, anche per tutelare i bravi operatori che ci sono, sarebbe opportuno cambiare la normativa sul conflitto d'interessi.

Cosa può succedere ora?

E' facilmente ipotizzabile che se non tutti almeno la grande maggioranza dei questionari di adeguatezza siano stati firmati dagli obbligazionisti. In questo caso i clienti delle banche hanno poco a cui appigliarsi per il ristoro delle somme perse. L'onere della prova di aver adempiuto agli obblighi di legge spetta alle banche e di fronte ad una firma su un questionario compilato in ogni sua parte quest'onere è soddisfatto. Il governo sembra orientato a costituire un arbitrato che dovrà per forza di cose valutare caso per caso con tempi che non si prospettano brevi. L'ipotesi di una class action contro le banche, percorsa da associazioni di consumatori, non mi sembra abbia molte possibilità di arrivare a successo. La seconda opzione, quella della costituzione di una provvista dedicata al risarcimento attraverso il fondo interbancario di tutela dei depositi, dovrebbe essere bocciata in sede europea. Le parole del ministro Padoan che ha parlato di emergenza umanitaria sono patetiche e inopportune e sono già state bollate dal commissario europeo ai servizi finanziari Jonathan Hill. Una cosa che si potrebbe fare è convertire quei titoli in opzioni sulle azioni delle nuove banche o in diritti sulle operazioni di recupero dei crediti deteriorati confluiti nella bad bank. Si eviterebbe di incorrere nelle sanzioni per aiuti di Stato e si darebbe più di un pezzo di carta agli obbligazionisti.








domenica 22 novembre 2015

Oriana, il Daesh e la guerra al terrore islamico

“Diventeremo l’Eurabia, in nemico è in casa nostra e non vuole dialogare”, queste le parole forse più forti pronunciate da Oriana Fallaci all’indomani degli attentati dell’11 settembre. Il termine Eurabia fu coniato dalla scrittrice ebraica Bat Ye’or che ipotizzava un’alleanza euro-araba contro Israele. Cardini di questo pensiero erano
a) l’atteggiamento più o meno palese filo arabo di molti stati europei nella questione palestinese
b) la costruzione di una politica degli esteri europea (essenzialmente condotta dalla Francia) in contrapposizione con quella degli Stati Uniti, storicamente schierati al fianco di Israele
c) le curve demografiche specularmente opposte di europei e musulmani (è interessante che questo elemento venga ripreso da alcuni Imam radicali, i quali ricordano che un musulmano può avere fino a 4 mogli e il tasso di natalità europeo è poco sopra 1).

Dunque nell’accezione originale il pericolo di una islamizzazione dell’Europa era decisamente riferito alla questione palestinese. La versione fornita dalla Fallaci invece, pur riprendendo alcuni di quei temi, (debolezza europea e anche americana di fronte alla minaccia islamica), ipotizzava una colonizzazione progressiva dell’occidente attraverso flussi migratori di popolazioni arabe e africane verso l’Europa.

L’offensiva dell’Isis sul territorio europeo con gli attentati di Parigi e le minacce alle altre capitali europee rappresenta l’attuazione di questo piano di invasione?

La propaganda sciacallesca di Salvini e di porzioni di centrodestra italiano e non vorrebbero farlo credere, ma un’analisi più attenta porta ad altre conclusioni.

Il califfato di Al Baghdadi si è subito differenziato nettamente rispetto ad Al Qaeda, di cui è una sorta di versione 2.0. Il limite dell’organizzazione di Bin Laden e Zawahiri era la non territorialità. Al Qaeda era un’organizzazione terroristica diffusa, organizzata in bande locali senza un territorio di riferimento. Le cellule qaediste agivano contro un nemico comune, l’Occidente, ovunque ne avessero la possibilità ma le loro azioni non avevano uno scopo più complesso. L’Isis invece si è posto subito l’obiettivo di organizzarsi in forma di stato, con un territorio definito, una propria organizzazione burocratica, con proprie attività commerciali e persino con la riscossione di tasse. La principale attività non è quella di seminare il terrore a Parigi piuttosto che a Roma, bensì quella di conquistare territori ricchi di materie prime e di petrolio e sfruttarne le potenzialità economiche.  Gli introiti del califfato sono molteplici, esattamente come per ogni organizzazione statale o parastatale, e vanno dal commercio (in nero) di petrolio al merchandising, da quello di opere d’arte ai dazi. In più ci sono tutte le attività tipiche di un’organizzazione criminale come il saccheggio delle banche e i riscatti per rapimenti. Insomma è molto più di un’organizzazione di fanatici. E’stato calcolato che il patrimonio accumulato ammonta a 2 miliardi di dollari e gli introiti da vendita di petrolio a circa 3 milioni di dollari al giorno.

Altro discorso meritano i finanziamenti ricevuti dal califfato. Il Washington Post ha condotto un’inchiesta  un'inchiesta dalla quale emerge che questi finanziamenti arrivano prevalentemente da Arabia, Kuwait e Qatar attraverso donazioni private.

Il Califfato occupa stabilmente 3 territori, le province di Raqqa in Siria, di Mosul in Iraq e di Sirte in Libia. Elemento comune è l’instabilità politica di quei Paesi  nei quali è facile con armi e determinazione conquistare spazi. 

Sfruttando dunque le tensioni geopolitiche, e gli interventi maldestri dell’Occidente, organizzazioni criminali mediamente organizzate possono prendere il controllo di aree intere del medio oriente; una lezione di cui tener conto e probabilmente è uno dei motivi per cui le truppe americane durante la prima guerra del golfo si fermarono a pochi chilometri da Bagdad, lasciando al suo posto Saddam.

Le principali e più cruente azioni terroristiche non sono state rivolte verso l’Europa ma contro le enclave curde e yazide e  verso gli sciiti, contro i quali i musulmani di confessione sunnita conducono una battaglia secolare. I 129 morti di Parigi fanno inorridire ma l’elenco delle azioni riconducibili all’Is è ben lungo.
Gli uomini del califfato hanno colpito in Arabia Saudita sia nella zona di Ihssa a maggioranza sciita che a Saihat (37 morti), nel Kuwait (27 morti), Tunisia (39 morti a cui si aggiungono le 22 vittime del museo del Bardo), Yemen (25 morti), Turchia (158 morti), Libano (43 morti), Egitto (4 morti) , Afganistan (35 morti). Poi ci sono le centinaia di vittime e deportati di Kobane, Mosul (670 sciiti fucilati), Beshir (700 morti), Kocho (80 vittime). La triste contabilità delle atrocità commesse dall’Isis è difficilissima ma indica abbastanza chiaramente che la maggior parte delle azioni sono state condotte fuori dall’Europa e non contro cittadini occidentali.

Questo significa che il pericolo è sovrastimato? Certamente no. Può significare però che gli attentati contro gli occidentali siano più riconducibili ad una forma di propaganda che non ad una reale intenzione di conquistare il vecchio continente e abbattere il “diavolo” occidentale. Da quando è stato costituito il califfato, sono oltre 3000 i foreign fighters di provenienza europea che sono andati ad affiancarsi ai 30.000 (erano 15.000 nel 2014 secondo Foreign Policy) miliziani dell’Isis impegnati nelle campagne militari in Siria e Iraq. Si tratta per lo più di giovani di origine araba e magrebina, europei di seconda e terza generazione, esattamente come gli attentatori di Parigi. Tutto sommato numericamente poco significativa invece la conversione di occidentali. In altre parole la retorica dell’attacco allo stile di vita decadente e peccaminoso dei miscredenti cristiani appare più come una ben congegnata operazione di marketing volta al reclutamento di giovani arrabbiati, che non come una via per la conquista del vecchio continente. In fondo, ricordiamolo, terzomondisti e critici della cosiddetta società in mano alle multinazionali ce ne sono anche fra noi europei; talvolta anche in parlamento. La stessa ricostituzione del califfato e l’autoproclamazione di unico califfo di tutti i musulmani sta ad indicare abbastanza chiaramente che l’obiettivo di Al Baghdadi è il controllo del mondo islamico e non di quello cristiano.

Pur contando su una organizzazione militare rigida e ben strutturata, pur considerando che all’interno delle aree fra Iraq e Siria sotto il controllo dell’Is vivono 6 milioni di abitanti, pur ammettendo che è di gran lunga il più ricco gruppo terroristico del mondo, è ben difficile che una entità tutto sommato piccola possa rappresentare una reale minaccia per un’organizzazione sovranzionale di 300 milioni di abitanti e ancor di più per gli USA o la Russia. Se non intervenissero altri e più complessi ragionamenti sarebbe abbastanza facile spazzare via lo Stato islamico dell’Iraq e della Siria. Come accennavamo sopra gli interventi militari degli ultimi 30 anni hanno dimostrato che abbattere una dittatura in quella regione porta più incognite che certezze. Significa i) dare il via ad una guerra per bande per il controllo di porzioni di territorio ii) dare impulso al sentimento antiamericano e antioccidentale, considerati  come invasori, sfruttatori e miscredenti iii) favorire il finanziamento occulto da parte di clan (le famiglie wahabite del Qatar ad esempio) a questa o quella  organizzazione di ribelli in funzione di combattere nemici storici. Se si vuole dunque annientare il Daesh è opportuno fare in modo che l’accerchiamento sia completo e della coalizione facciano parte anche quegli stati il cui atteggiamento è quantomeno equivoco. Un ruolo importante ce l’ha l’Iran, bersaglio di Al Baghdadi in quanto Paese sciita, ma un ruolo altrettanto importante devono averlo i Paesi arabi e l’Egitto. Gli attentati del 13 novembre e quello quasi contemporaneo all’aereo di linea russo hanno avvicinato Hollande e Putin, ammorbidendo anche l’intransigenza di Obama rispetto alle mira russe nell’area. La Turchia, interessata da fenomenii migratori molto più imponenti di quelli affrontati dall’Europa, ha aperto ad un possibile suo intervento più coordinato e sistematico. Resta da vedere che atteggiamento assumeranno i sauditi.

Vi sono altre 2 considerazioni da fare.
L’imponente flusso migratorio in atto da mesi dalle coste dell’Africa verso Italia e Grecia e via terra dalla Siria attraverso la Turchia e l’Europa orientale, poco ha a che fare con la minaccia terroristica. E’ ingenuo, oltre che fuorviante, pensare che un siriano che voglia farsi esplodere in una discoteca di Parigi rischi la vita su un scalcagnato barcone per raggiungere le coste europee. Le rotte dei terroristi seguono altri percorsi oppure, come abbiamo visto, perseguono la strada dell’indottrinamento di chi sul territorio europeo già ci vive. Allo scopo Al Qaeda prima e l’Isis ora hanno utilizzato tanto le moschee quanto internet.
Per chi è indottrinato in base alle più estremistiche interpretazioni del Corano, la morte non è una minaccia ma un premio. Combattere e morire in una guerra contro chi è considerato infedele è una ricompensa. Questo comporta che annunciare il pugno duro senza che ad esso corrisponda un’azione determinata non ottiene nessun effetto. Fanno sorridere quelli che predicano il dialogo con queste organizzazioni e, più o meno intenzionalmente, ne giustificano gli atti come risposta agli abusi degli occidentali. Non ci può essere dialogo con chi non ha nessuna intenzione di dialogare. In questo, e solo in questo, la Fallaci aveva ragione. 

lunedì 26 ottobre 2015

La Legge di stabilità secondo Renzi

Perché le tasse che diminuiscono invece aumentano

Mentre Renzi va in giro per il mondo per il suo road show in cui magnifica la ripresa economica italiana - partendo dal Cile che viaggia su saggi di crescita del Pil compresi fra il 2,8 e il 3,6 nel 2016 - comincia a dipanarsi la nebbia sulla legge di stabilità presentata alla stampa qualche giorno fa.
Capitolo centrale della “finanziaria” 2016 è il previsto funerale delle tasse sulla casa. L’argomento è già stato ampiamente trattato su queste pagine  http://noisefromamerika.org/articolo/mio-nonno-fava-mattoni e http://noisefromamerika.org/articolo/lo-strano-caso-abolizione-imu , per cui non ci tornerò.
Tutto l’impianto della manovra si basa su 3 elementi, come vedremo retorici, a conferma di quanto qui spesso si sostiene, ossia che Matteo Renzi sta facendo politica per tenersi il potere, non per risanare il paese.
i) Riduzione delle tasse
ii) Flessibilità del parametro del deficit
iii) Efficacia delle riforme
Riduzione delle tasse
L’aggiornamento al DEF, unico documento completo del governo oggi consultabile, ci dice che la pressione fiscale passerà dal 43,7% del 2015 al 44,2% del 2016 (esclusa la misura degli 80 euro che come sappiamo è imputata per ragioni di contabilità alle spese). Dunque se Renzi e Padoan parlano di riduzione delle tasse come scelta ineludibile che non è né di sinistra né di destra, deve esserci qualche elemento che viene sottratto artificiosamente alla discussione dato che è lo stesso governo a smentire sé stesso. Conoscendo un po’ di materia fiscale, soprattutto il modo in cui si dipana la matassa del calcolo delle imposte per effetto del combinato dei tanti, troppi, provvedimenti in materia, si può ottenere la risposta. Ad esempio, il ricalcolo del diritto alle agevolazioni fiscali in funzione dell’attuazione del Dpcm 159/2013 (Isee) produce per molti cittadini e famiglie un aumento del reddito equivalente e quindi minori detrazioni, quindi maggior pressione fiscale e minor reddito disponibile anche con l’abolizione dell’IMU. Ragion per cui fra il Renzi 1, quello che mostra le slide ai giornalisti, e il Renzi 2, quello che firma il DEF, è più probabile che quello sincero non sia il primo. In buona sostanza l’ineludibile ed auspicabile riduzione della pressione fiscale non ci sarà né nel 2016 né nel 2017. A legislazione vigente ci sarà al limite nel 2019, sempre che gli enti locali non possano compensare i minori introiti con un aumento delle addizionali di loro competenza.
Non meglio va sul fronte delle entrate tributarie complessive espresse in valore assoluto (non rapportato al PIL), laddove lo Stato conta di incassare 817 miliardi nel 2016, 843 nel 2017, 866 nel 2018 e 884 nel 2019; con una progressione che sembra inarrestabile.
C’è poi da ricordare che le clausole di salvaguardia, di cui parlerò dopo, non sono affatto annullate così come promesso a più riprese, ma solo posticipate.
Flessibilità del deficit
Ad una scelta di “destra”, o berluconiana, Renzi contrappone una scelta di “sinistra”, sfruttando gli spazi di manovra concessi dall’Unione Europea in materia di deficit. Il percorso verso il pareggio di bilancio si concluderebbe nel 2017. La deviazione, già prevista nella misura dello 0,5%, crescerà di un altro 0,3 a cui si aggiungerebbe un ulteriore 0,2 per effetto delle misure straordinarie destinate alla gestione dei flussi migratori. Si tratta come si vede di una manovra economica in deficit, né più né meno di tante altre che abbiamo visto negli anni passati. L’effetto di queste manovre, ce lo dice l’osservazione storica, è o l’aumento del debito o l’aumento delle imposte future; a meno che non ci sia una equivalente riduzione delle spese correnti. Ma anche qui Renzi fa l’uomo di sinistra (Fassina sarà contento) e di spending review si è persa oramai qualsiasi traccia. Certo ci sono i tagli lineari ai ministeri (1,5 miliardi) e quelli da definire alla sanità, ma sul capitolo pensioni che da solo concorre alla spesa dello Stato per il 17% già si parla di flessibilità in uscita e quindi di stress sui conti INPS.
Sull’equilibrio dei conti pubblici pende la scure dell’applicazione delle clausole di salvaguardia introdotte con la legge di stabilità 2015. Un aumento di 2 punti delle aliquote IVA e delle accise sugli oli minerali. Il governo sembra rendersi conto che gli aumenti previsti (da cui dipendeva l’approvazione europea della legge di stabilità dello scorso anno) possono compromettere la già timida ripresa, ma rimanda ad un futuro dibattito la loro sterilizzazione. E’ un modo di agire pericoloso perché il quadro economico mondiale mostra segni di rallentamento. Se, come sembra, la situazione internazionale dovesse peggiorare, le previsioni sul PIL dovrebbero essere riviste al ribasso e l’impianto della manovra impostata su un maggiore indebitamento salterebbe. A quel punto sarebbe ben difficile evitare gli aumenti previsti.
Efficacia delle riforme
Che il governo Renzi sia preda di un furore riformista non credo si possa negare. Che questa frenesia produca benefici effetti sull’economia è di là da dimostrare.
Posto che le riforme elettorali e costituzionali poco impattano sull’economia; posto che gli effetti degli 80 euro sui consumi sono stati men che trascurabili; posto poi che jobs act e decontribuzione hanno prodotto risultati sul fronte dell’occupazione ancora troppo altalenanti per essere considerati definitivi, qualcosa è lecito attendersi dai decreti delegati in materia di rapporti fra PA e contribuenti, abuso di diritto ed elusione e riforma delle società partecipate. Su queste materie tuttavia insistono ancora dubbi interpretativi e deleghe ancora non arrivate.
Di quelle previste dal cronoprogramma elaborato dal governo ad avere impatti sul prodotto interno lordo e in generale sull’economia ci sono solo la cessione di aziende pubbliche (Poste, Enav, Ferrovie dello Stato), riforma delle scuola e legge delega sulla riforma della P.A. Le ultime due dovrebbero produrre risultati fin da subito che però allo stato non si vedono.  
Conclusioni
La partita della ripresa passa necessariamente per una ridefinizione del rapporto fra pressione fiscale e razionalizzazione della spesa pubblica. Di solito il percorso parlamentare delle leggi di stabilità produce stravolgimenti che premiano la spesa e mortificano i buoni propositi sulla pressione fiscale. E’ ipotizzabile che sull’IMU sulla prima casa il testo proposto da Renzi trovi un’ampia convergenza, mentre sul resto dei provvedimenti l’iter potrebbe essere diverso. Qualunque sia il risultato finale, il governo sembra davvero aver intrapreso un cammino pieno di incognite, anche al netto degli ottimistici proclami e del clima di fiducia che intende ispirare.

Pubblicato su noisefromamrika.org

martedì 28 luglio 2015

Milano Unica

Sono stato ieri sera (27.07 per chi legge) all'Ambrosianeum ad ascoltare la presentazione della campagna per la poltrona a sindaco di Palazzo Marino di Corrado Passera.



Quando parlo di Italia Unica e del suo leader non posso evitare di partire da alcune premesse:


  1. CP mi è umanamente simpatico. L'ho conosciuto di persona e abbiamo avito modo di parlare di politica, dell'Italia, della sua esperienza al ministero dello sviluppo economico, di possibilità di nascita di una nuova offerta politica. E' sempre stato disponibile all'ascolto e al confronto, almeno fino a quando le critiche non sono diventate più pungenti.
  2. In Italia Unica militano tanti amici con cui si è condiviso, con alterne vicende, un progetto.
  3. Se l'offerta politica è rappresentata dalle televendite del Renzi Job Act Show, o dalle felpe si Salvini, o dai vaffa dalla Costa Smeralda di Grillo, l'uomo Passera appare un gigante come Gulliver fra i lillipuziani.
  4. Come manager ha fatto talvolta benissimo, talvolta bene, tal'altra così e così; comunque molto meglio di tanti altri di cui si ricordano le gesta più gli emolumenti inversamente proporzionali ai passivi in bilancio delle società che guidavano che per altro.
Fatto questo incipit avevo già avuto modo di commentare quello che mi appariva come un programma debole e all'insegna della continuità. Da allora, era febbraio, CP ha invertito la rotta, puntando alla poltrona di una città, sia pur una grande città, piuttosto che a quella di Palazzo Chigi. Credo che sia un passaggio significativo del ridimensionamento del suo progetto di governo e di nuovo punto di riferimento del centrodestra. Cosa abbia fatto cambiare prospettiva non lo so, anche se nell'articolo citato Boldrin ed io esprimevamo lo scetticismo sulla possibilità che un movimento nuovo così democristianamente ecumenico potesse far breccia fra gli elettori.

Tant'è, Passera riparte dal comune più importante d'Italia arrendendosi allo strapotere delle promesse renziane. Può darsi che in prospettiva non sia neanche una mossa sbagliata.

E' presto per rivelare i programmi e, come giustamente sottolineato dal responsabile economico Riccardo Puglisi, si darebbe soltanto agli altri il vantaggio di copiarli. Tuttavia qualcosa sulla visione di IU mi aspettavo; e invece non è arrivato nulla.

Nell'ora e mezza passata in un ambiente più umido della foresta amazzonica si è parlato di (nell'ordine):
  1. ascolto dei cittadini
  2. incontro nei bar con i cittadini
  3. apertura delle porte formate dai cittadini
  4. burocrazia amica dei cittadini
  5. redistribuzione dei servizi ai cittadini
  6. maggiore spazio al terzo settore (deve essere un mantra quello del terzo settore ma bisognerebbe spiegare ai cittadini di Quarto Oggiaro esasperati per il degrado e per lo spaccio cos'è).
Giustamente alla ennesima volta in cui la parola "cittadini" (nobilissima per carità) è stata pronunciata il solito Puglisi, che gli umori della folla un po' li sente dato che frequenta assiduamente gli studi di La7, si è alzato e ha detto "chiamiamoli "pagatori di tasse"!
A quel punto mi aspettavo a) l'ovazione degli 81 cittadini presenti b) l'urlo di approvazione del candidato sindaco pronto a lanciare il guanto di sfida a una delle amministrazioni comunali più voraci dell'orbe terracqueo; invece...niente. Il low profile, il parlare con tono pastorale e rilassato, il vogliamoci bene che tutto sommato non stiamo così male sembra essere un cliché che non deve, o non può, essere abbandonato.

Come per il programma per l'Italia anche quello per Milano sembra essere un mantenere lo status quo con qualche piccolo aggiustamento, qualche piccolo efficientamento, qualche miliarduccio da investire (l'altra volta i miliarducci erano 400) per rimettere in moto il territorio. Insomma niente rispetto a quello che penso serva - meno burocrazia, più libertà di impresa, più competitività, maggiore apertura ai mercati per un tessuto produttivo, quello milanese e quello lombardo, che avrebbe sicuramente la capacità di giovarsene, meno TASSE - e niente rispetto alle aspettative di una popolazione incazzata pronta a gettarsi fra le braccia del più rozzo e xenofobo degli urlatori da piazza.

Magari più avanti Passera cambierà toni; magari più avanti svelerà cosa vuole che diventi Milano sotto la sua guida; magari sarebbe anche un buon sindaco, ché le capacità non gli mancano e peggio di così è davvero difficile fare. 

Intanto da quello che ho sentito la voglia di votare non mi è venuta; poiché l'election day sarà di domenica è probabile che me ne vada al lago. Allo stesso modo è difficile che chi a votare ci vuole andare, quel 50% di elettori da tutti inseguiti e da nessuno raggiunti si faccia coinvolgere da uno che tutto sommato con la politica, quella con la p minuscola, ha sempre fatto affari.

Sarò lieto se i fatti mi smentiranno.

martedì 16 giugno 2015

Un pensiero sociale (nona parte) - La generazione X

Prendo spunto da un bel articolo di Riccardo Puglisi su Linkesta (http://www.linkiesta.it/generazione-anni-70-senza-potere) per dire anch'io la mia sulla Generazione X, di cui, poco soddisfatto, faccio parte.

Devo tuttavia fare un preambolo prima di incominciare, a beneficio dei pochi che leggeranno questa nota. La cosiddetta Generazione X comprende nati tra gli anni 60 e gli anni 80. Una bella fetta della popolazione oggi in età adulta, possibilmente sposata e con prole, da anni inserita nel mondo del lavoro reale. Bene! Stiamo parlando di questa gente qui, cresciuta come dice Puglisi a pane e anime, in una Italia già abbastanza benestante, ma non del tutto. Tuttavia, come spesso accade nelle disamine di professori, cattedratici e sociologi, si manca il punto e si finisce per lanciare la freccetta poco più a destra o sinistra, rispetto all’occhio di bue. Il centro, che non piace a nessuno sia chiaro, proverò a mostrarvelo io; senza pomposi grafici e formule matematiche, senza tabelle demografiche e frasi complicate. Sarò anzi un po’ duro e forse per qualcuno anche scurrile. Per questo chiedo in anticipo venia. Infine sia chiaro: niente contro il Dottor Puglisi, che per quanto possa dire, mi sembra proprio un bravo ragazzo…

Ok! Giù dalla torre d’avorio!

lunedì 25 maggio 2015

Pensioni, il solito pastrocchio all'italiana

“Le nuove regole introdotte dalla riforma adottata con la L. 214/2011 hanno modificato in modo significativo il sistema pensionistico migliorandone la sostenibilità nel medio-lungo periodo e garantendo una maggiore equità tra le generazioni”. 
Così recita una nota del ministero dell’economia nel DEF 2015. La sostenibilità del sistema nel medio-lungo periodo non può essere certo messa a rischio dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 70/2015, mentre quella a breve poteva, o potrebbe, essere seriamente messa in discussione, in special modo con riguardo all’equilibrio delle spese correnti e del parametro del deficit. Pericolo scongiurato, a detta di Renzi, attraverso la determinazione del Consiglio dei Ministri del 17 maggio con cui il governo ha stabilito che ad avere il beneficio della perequazione all’inflazione saranno 3,7 milioni di pensionati rispetto ai circa 5 milioni degli aventi diritto con una spesa pari a 2,1 miliardi contro i 18 preventivati.
Dunque l’angoscioso dilemma sull’uso del – presunto - tesoretto è stato risolto. Pazienza se il suddetto tesoretto doveva essere di 1,6 mld e non di 2,1. 
Lo Stato dunque restituisce l’11,1% di quanto dovrebbe in forza di una sentenza della suprema corte. Il resto mancia, o meglio si vedrà nei prossimi anni. Le costituende associazioni di pensionati, spalleggiati dai soliti sciacalli politici un tanto al kilo, che magari nel 2011 votarono il decreto Monti (PD e PdL-Forza Italia in testa), già urlano il loro grido di guerra e minacciano class action. 
Vediamo di fare un po’ di ordine in questo inqualificabile pastrocchio molto italiano e proviamo a fare qualche considerazione sul perché una materia così sensibile non riesca a trovare nel belpaese una meritata e stabile quiescenza. 
La spesa per trattamenti pensionistici è in Italia oggettivamente molto alta. Sempre nel DEF si può leggere la seguente tabella che riporta l’incidenza degli assegni pensionistici sul totale.


 Come si vede, alla faccia di tutte le riforme che avrebbero stabilizzato il sistema, fino al 2045 la spesa per pensioni si terrà ben al di sopra del 15%, il doppio della media OCSE. Come si è arrivati a questo livello?  
ONTOLOGIA DI UN PASTROCCHIO
Il guazzabuglio creato dalla sentenza della Consulta ha origini lontane ed è insito nel sistema pensionistico stesso.
Un sistema a ripartizione, indipendentemente dall’essere caratterizzato dal calcolo retributivo o contributivo, è sottoposto a stress finanziario se non supportato da adeguate dinamiche demografiche ed economiche.
Insomma, va bene finché cresce il numero di occupati in rapporto al numero dei pensionati e finché cresce la produttività degli occupati stessi, ossia il PIL aggregato. Altrimenti non va più bene e diventa una palla al piede non solo e non tanto per i conti dello stato ma per il sistema economico stesso. Perché, siccome le pensioni vanno pagate, la tassazione sul reddito (da lavoro) deve crescere o ben via contributi sociali o ben via imposte generali. E questo ammazza il lavoro.
In Italia, da quasi due decenni, c'è poca crescita dell'occupazione e quasi nulla crescita della produttività. Quindi il PIL non cresce e da 8 anni oramai discende. Quindi il reddito da "ripartire" diminuisce e, se la fetta "ripartita" via pensioni non decresce assieme al PIL ma cresce, decresce ancor di più quel che rimane per gli altri. Quelli che il PIL lo producono, o dovrebbero.
Su questo stato di fatto per almeno tre decenni la politica ha chiuso occhi, naso ed orecchie  arrivando a mantenere in vita furti come le Baby Pensioni (Governo Rumor, 1973) che ci costano ancora 9 miliardi l’anno, o sistemi di calcolo particolarmente generosi per tutti (fino a più del 100% del reddito per alcuni privilegiati).
In questi anni si è assistito ad una forma di cannibalismo intergenerazionale, con “gli anziani” che si nutrivano avidamente dei contributi dei figli. Quando si cominciarono ad intravvedere le conseguenze di questo saccheggio di risorse, era il 1992, si mandò in scena un refrain tipicamente italiano: la toppa a coprire il buco. Allungamento - graduale per carità e non per tutti ché qualche privilegio bisogna comunque garantirlo - del periodo di osservazione del reddito utile al calcolo dell’assegno. Tre anni durò la salvifica riforma Amato che nulla salvava.
Altra toppa nel 1995 (L.335), questa volta più robusta almeno nelle intenzioni, e introduzione - graduale anzi gradualissima - del contributivo. La riforma Dini-Triplice sindacale si basava su due grandi drivers: montante dei contributi versati dai lavoratori e coefficienti di trasformazione. Ora, se per i primi è facile immaginare che poco ci sia da intervenire essendo questa materia indipendente dalla volontà dei governi, per i secondi era logico pensare ad una revisione sistematica e puntuale dei moltiplicatori in base alle aspettative di vita della popolazione. Appuntamento proditoriamente saltato perché la pensione, e il relativo diritto a percepirla (i diritti acquisiti su cui tornerò dopo), è come  la mamma, la chiesa e la nazionale di calcio: intoccabile.
Altro giro, verrebbe da dire di orologio, altra miniriforma. Prodi 1997, appena un anno e mezzo dopo la 335 di Dini, con l’accelerazione della fase transitoria che salvaguardava le pensioni di anzianità.
Non passano tre anni che si mette mano di nuovo ad un aggiustamento, questa volta con D’Alema, con l’istituzione del contributo di solidarietà per le pensioni d’oro. Tregua di quattro anni e nuova toppa con Maroni (L.243/2004) contenente, fra l’altro, il famigerato “scalone”. Di nuovo Prodi (2007) e di nuovo una riforma, la 247, con cui si introduce un nuovo elemento che diventerà gergo comune, quota 95 (somma dell’età del pensionando e  degli anni di lavoro, poi portata a 96). Questa volta il silenzio dura solo 2 anni perché nel 2009 il governo Berlusconi vara la Legge 102 destinato ad innalzare l’età di pensionamento delle donne a 65 anni. Infine arrivano il supertecnico Monti con la supertecnica Fornero e siamo ai giorni nostri.
Dunque di toppa in toppa, di riformina in riformina, le pensioni, che ogni volta nelle conferenze stampa erano messe in sicurezza da qui all’eternità, sono state rimodulate otto volte in 20 anni! Un sistema che funziona non necessita di tanti aggiustamenti. E gli aggiustamenti continui massacrano il paese. Guarda caso l'ha ricordato anche Mario Draghi l'altro ieri, dandomi l'opportunità di aggiungere questa citazione. Lapalissiano no?
Facendo finta di difendere i diritti acquisiti e valutandoli per quello che in realtà sono, ossia aspettative,  verrebbe da dire che i diritti acquisiti sono stati traditi alla media di una volta ogni diciannove mesi, senza garanzia che il film finisca qui.
PERCHÈ RENZI HA RAGIONE E PERCHÈ HA TORTO
La sentenza della suprema Corte apre un buco nei conti pubblici che già sono in equilibrio precario. Ha ragione Renzi a lamentarsi di dover aggiustare i guasti prodotti da altri perché l’Italia non può permettersi sforamenti nella disciplina di bilancio per via dell’elevato debito pubblico e per via di una crescita ancora asfittica . Pagare per intero la perequazione significherebbe dover poi reperire risorse per altri 16-18 miliardi, l’importo di una robusta manovra. Significa, molto probabilmente, far scattare le clausole di salvaguardia in materia di IVA e di accise contenute nella legge di stabilità, con pericolosissime conseguenze sul fronte dei consumi interni.
Renzi ha però anche torto perché non esistono sentenze che si rispettano in quota parte. Non si può dire al giudice “ok, mi hai condannato a 1000,00 euro di risarcimento ma io ne pago soltanto 11,00”.
Se da una parte è corretto privilegiare le pensioni più basse, dall’altra non si può incorrere per l’ennesima volta nella disuguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. Troppe volte a sud delle Alpi si sono applicate le leggi ad alcuni e non ad altri, erogati privilegi in base al censo, alla tipologia di lavoro (chi si ricorda gli 80 euro?) o a qualche altro astruso parametro.
Naturalmente la cosa vale anche al contrario e, combinazione, proprio nelle ore in cui veniva emanata la sentenza sulle pensioni vedeva la luce anche quella sulla inapplicabilità della Tobin Tax, quella tassa per cui se sei un imprenditore di un settore paghi di più di chi opera in un altro. Altro buco di bilancio per le casse dello Stato questo, ma di importo più contenuto (700-800 milioni).
Come reagirà la Corte Costituzionale di fronte alla facilmente immaginabile massa di ricorsi da parte di chi non vedrà rispettata su di sé la sentenza?
Nella tabella successiva è rappresentata una segmentazione dei pensionati per classi di reddito. Quelli che sono nella fascia più alta hanno senza dubbio il diritto di reclamare e cercare giustizia.


Secondo quanto si è appreso dalla conferenza stampa di presentazione del decreto gli esclusi dal rimborso sarebbero dunque circa 670.000. Un esercito. Non solo, il meccanismo ipotizzato “premia” nel migliore dei casi con il 71% di quanto si ha diritto, per cui potenzialmente tutti i 5 milioni e rotti di pensionati potrebbero fare azione per il recupero di quanto loro dovuto.
I TECNICI ALLA PROVA DELLA TECNICA
Qui si pone un altro problema ben conosciuto. È mai possibile che la competenza di strapagati funzionari e direttori dei ministeri produca con questa puntualità norme e leggi che non reggono all’esame di costituzionalità? Della competenza dei politici com’è noto c’è poco da fidarsi ma è davvero inquietante che chi ha la responsabilità, e il potere, di tradurre in norme gli obiettivi del governo che impattano sulla vita dei cittadini dia prova di tanta incommensurabile ignoranza.
Già il governo Monti-Fornero aveva partorito gli esodati, un errore da penna blu cui si sta faticosamente provando a porre rimedio. Il non prevedere che una misura potesse essere cancellata da una sentenza, compromettendo i risultati di una manovra fatta in situazione di drammatica emergenza, è da bocciatura a libretto. A meno che Monti non sapesse e volesse soltanto prendere tempo scaricando su chi sarebbe venuto dopo di lui il peso dell’errore. Se così fosse il giudizio su quell’esperienza di governo sarebbe ancora più severo e senza appello.
DIRITTI ACQUISITI?
Poche formule retoriche sono così fluide e sfuggenti come questa. Si può considerare "diritto acquisito" il contenuto di una norma di legge con cui lo Stato promette un pagamento o una tassa futuri? Ci sono innumerevoli casi in cui la controparte, lo Stato appunto, ha modificato ex post i termini di tali patti: ogni volta che ha cambiato il regime fiscale ha violato una promessa scritta in una legge precedente, idem quando ha alterato un trasferimento verso questa o quell'altra categoria.
D'altro canto, esiste pure un diritto "politico" ad una pensione se si versano i contributi in età lavorativa ed esiste anche un principio costituzionale di uguale trattamento di tutti da parte della legge. Per le generazioni che non hanno usufruito della generosità della politica passata questi diritti sono ora seriamente compromessi.
Posto, per comodità di calcolo, che un pensionato ante riforma Amato andasse in pensione con un assegno pari all’80% dell’ultima retribuzione, un altro, in condizioni omogenee per anzianità lavorativa e contributi versati, ha ora diritto ad un trattamento non superiore al 50%. Una differenza non giustificata dall’aumento dell’aspettativa di vita e determinato solo dai differenti meccanismi applicati. La legislazione pensionistica non tratta tutti i cittadini nella stessa maniera ma li discrimina a seconda dell'età, della categoria professionale, del settore d'occupazione.
È giusto questo? Non lede forse il diritto del pensionato di domani ad una retribuzione “proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé stesso e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”? (art. 36 della costituzione).   
Il dato è che il sistema pensionistico italiano è un gigantesco schema di trasferimento intergenerazionale delle risorse in cui chi è in cima alla piramide sta benone, chi è nel mezzo vivacchia, chi è alla base raccoglie le briciole; chi sarà la base di domani probabilmente neanche quelle.
COSA INSEGNA QUESTA VICENDA
Prima di tutto, ma è una conferma, che siamo governati da incapaci, bravi a promettere, fuoriclasse a sperperare e pessimi a programmare.
In secondo luogo che i diritti acquisiti sono un lusso che non possiamo permetterci ma che nessun politico nel pieno della sua attività avrà mai il coraggio  di ammettere perché si alienerebbe il voto di una larga fetta di elettorato.
In terzo luogo che la consuetudine di rattoppare leggi fatte male spesso le peggiora e nella migliore delle ipotesi sposta solo in avanti il problema facendo pagare il conto a chi verrà.
Infine che il dibattito sulle pensioni è infarcito di cattiva informazione e che, ad esempio, un sistema contributivo non è affatto garanzia di sostenibilità della spesa né di prestazioni. I contributi versati non sono del contribuente ma del sistema che li distribuisce più o meno direttamente ai pensionati.  Non esiste alcun accantonamento dei contributi versati; non esiste alcun impiego degli stessi soldi; non esiste alcuna indicizzazione di quanto risparmiato se non quella che è decisa con una legge e che un’altra legge potrebbe cancellare. Esiste solo un travaso di risorse dai giovani ai vecchi sperando che venga poi qualcuno ancora più giovane che faccia lo stesso e con inconsapevole generosità paghi per la generazione precedente.
Forse è proprio da qui che bisognerebbe partire se si volesse porre fine definitivamente al pastrocchio.
da noisefromamerika.org